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Ottobre 2014

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LO SPETTATORE LIBERATO.

Esperienza e rappresentazione nella sala cinematografica

Dario Malinconico

 

Questo testo è la trascrizione di un intervento presentato al seminario Anestesie del presente, riportato qui senza sostanziali modifiche. Si è scelto tuttavia di omettere, per ragioni di scorrevolezza e di concisione, una prima parte in cui si delineava il progetto più generale di ricerca entro cui l’intervento stesso si collocherebbe[1].

 

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Innanzitutto, vorrei soffermarmi brevemente sull’argomento generale del nostro seminario, Anestesie del presente. Come ogni titolo pensato e meditato a lungo, anche il nostro potrebbe far sorgere subito almeno due questioni: che cosa oggi è anestetizzato? In che consiste l’anestetico di cui andiamo discutendo? Credo che le risposte di chi interverrà non saranno univoche, anche se tenteranno di disporsi in un discorso quanto più possibile unitario.

Riguardo alla prima questione, io penso che una delle “parti anestetizzate” oggi sia la nostra capacità di messa a distanza critica dall’esistente, cioè di guadagnare un grado accettabile di autonomia e di emancipazione dalle cose così come esse socialmente sono. Preciso: non mi riferisco alla capacità di produrre un’accettabile teoria critica della società, tradizionalmente appannaggio di pochi, ma piuttosto ad una capacità che dovrebbe appartenere ad ognuno, pur se con gradazioni diverse. Anche perché, se esiste davvero un anestetico che inibisce e “addormenta” tale capacità - e arrivo alla seconda questione - non potrà che funzionare erga omnes, ovvero come un anestetico di massa, i cui effetti si riflettono in modo massificato e in ambiti diversi. Di che si tratta? Il nostro gruppo di ricerca l’ha finora identificato con il processo di progressiva “virtualizzazione” della società contemporanea, tentando in vario modo di collocarlo nel livello attuale dello sviluppo capitalistico, come ultima grande rivoluzione industriale (o post-industriale).

Ovviamente, espresso in questi termini, l’argomento può sembrare piuttosto vago. Nel senso che sono in tanti, oggi, a fare l’apologia dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, così come sono molti coloro che li ritengono semplicemente neutrali e relativamente pochi quelli che li criticano o li rifiutano. Io vorrei innanzitutto svincolarmi da queste posizioni generali e focalizzare l’analisi sulle contraddizioni e sulle novità di un processo, quello dell’informatizzazione, che possiede un’evidente origine capitalistica, non semplicemente tecnica. Sono convinto infatti che non sia possibile, nel tempo della modernità, separare Capitale e Tecnica, perché negli ultimi due secoli la tecnica è sempre stata, in primis, un prodotto della società capitalistica finalizzato ad incrementare o a trasformare la fase stessa della produzione; solo in secundis la tecnica è stata anche altro, e cioè un fattore di avanzamento umano, di sfida prometeica, di espansione dell’orizzonte del possibile. Questa tecnica, lo spiegava il giovane Marx, non produce solo merci e valore, ma anche alienazione dell’uomo da se stesso. Alcuni, dopo di lui, hanno aggiunto che produce irreggimentazione, conformismo, “bisogno artificiale di merci”, normalizzazione dei comportamenti, modificazioni antropologiche (perdonate la carrellata superficiale, ma l’impone il poco tempo a disposizione). Infine – si potrebbe aggiungere con la dovuta modestia – produce oggi anche una sorta di anestesia da ciò che abbiamo intorno, che con sempre più fatica riusciamo a discernere o a criticare. Se scegliamo di seguire questa strada, la domanda di fondo sarà allora la seguente: perché il processo contemporaneo di virtualizzazione della società rischia di funzionare come una sorta di anestetico di massa?

Come dicevo in apertura, tale processo riguarda necessariamente sfere diverse della vita umana: io ho scelto di riflettere su ciò che esso implica per la nostra esperienza della rappresentazione, ovvero per il rapporto che c’è tra il nostro modo di esperire il reale e le forme socialmente mediate di elaborazione e rielaborazione del reale stesso che siamo soliti chiamare “rappresentazioni”. Si tratterà dunque di un’analisi del medium e del suo rapporto col soggetto/spettatore. Per evitare di mettere troppa carne al fuoco, cercherò di seguire il filo di quella che probabilmente può essere considerata una delle forme di rappresentazione più complesse il Cinema dato che si presenta, al tempo stesso, come una sorta di summa delle arti precedenti (pittura, narrazione, drammaturgia) e come la prima forma di spettacolo di massa, nata tecnicamente nel cuore della lunga rivoluzione industriale. È un’esperienza che ha il proprio luogo peculiare di svolgimento nella sala cinematografica, e che oltretutto appartiene più al secolo appena trascorso che al nostro, nel senso che ha già consumato in larga parte la propria parabola di cambiamento antropologico (impossibile da riassumere in questa sede). Parlare del cinema per parlare poi della virtualità potrebbe sembrare azzardato; mi scuso perciò fin da ora per la provvisorietà del mio intervento, ma confido che la forma del seminario potrà contribuire ad affinare, e forse anche a criticare, alcuni dei concetti che utilizzerò.

 

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Il punto di partenza è che un’esperienza mediata del reale non è mai neutrale, ma è sempre socialmente e tecnicamente determinata. Un po’ come le lenti colorate di cui parlava Kant, che se indossate in maniera permanente modificherebbero le categorie stesse del colore. Sostenere questo, tuttavia, non significa affermare che il medium ha sempre la meglio sul soggetto/spettatore che ne usufruisce. Ecco il perché del titolo Lo spettatore liberato: si tratta infatti di capire come (e se) il soggetto/spettatore riesce a “fuoriuscire” dalla passività della sua fruizione, in rapporto ad una forma socialmente mediata di rappresentazione del reale.

Una prima ipotesi è che lo spettatore può sempre liberarsi dalla sua passività, indipendentemente dalla rappresentazione in questione, e che anzi la rappresentazione stessa funziona “al suo meglio” quando consente tale “emancipazione”. Lo sostiene ad esempio Jacques Ranciére in un piccolo saggio intitolato Le spectateur émancipé del 2008. Nelle prime pagine, Ranciére afferma che è stata soprattutto «l’assenza di ogni relazione evidente tra il pensiero dell’emancipazione intellettuale e la questione dello spettatore oggi» ad averlo spinto a interrogarsi sul pregiudizio di passività insito nella nostra concezione del ruolo dello spettatore. Riferendosi in particolare al caso del teatro, che nelle sue avanguardie novecentesche amava presentarsi come una forma di rottura con ogni passività, ad esempio tramite la messa a distanza dalla catarsi (Brecht), o con l’abolizione di ogni distanza dalla scena (Artaud), Ranciére sostiene che lo spettacolo stesso diventa politico solo quando riesce a porre sullo stesso piano l’autore e lo spettatore, quando consente a quest’ultimo di muovere da solo i passi verso il proprio sapere, innescando un possibile movimento di emancipazione dal reale dato.

Questa funzione, quasi pedagogica, dello spettacolo, non si esplica attraverso le forme spesso didascaliche dello spettacolo politico in senso stretto; per Ranciére, infatti, l’atto stesso della visione è già una forma di azione sul reale, poiché lo spettatore, «osservando, selezionando, comparando e interpretando» ciò che ha di fronte, spesso in modo imprevedibile per colui che mette concretamente in scena lo spettacolo, scompagina prima di tutto «l’identità di causa ed effetto», ovvero la corrispondenza tra il messaggio originale e la sua (univoca) rielaborazione. Riassemblando ciò che ha appena visto «alla sua maniera», lo spettatore mette segretamente in dubbio la distinzione stessa tra attività e passività, che certo non ritroviamo solo sulla scena di un teatro, ma in qualsiasi divisione sociale e politica. Egli comprende (o forse può comprendere, Ranciére non lo specifica) che ciò che può essere detto, visto o fatto si colloca sempre entro un determinato regime di dominazione e di organizzazione simbolica del reale.

Emanciparsi come spettatori significa in primo luogo capire che tale organizzazione simbolica è sempre una separazione, e può essere «confermata o trasformata» anche dal semplice atto della visione. Del resto, secondo Ranciére l’artista stesso, nonostante i suoi proponimenti, ignora la reale destinazione della propria opera e del proprio sapere; così come lo spettatore, associando e dissociando ciò che percepisce nello spettacolo, si ritrova in una condizione non così dissimile dal suo normale modo di agire. Entrambi si aprono a qualcosa di inaspettato, perché c’è sempre un sapere potenziale che opera malgrado le intenzioni di chi lo trasmette, così come c’è sempre un’attività di ricostruzione soggettiva, potenzialmente emancipativa, nell’essere spettatori di qualcosa.

Non è un caso che lo stesso Ranciére, quando definisce il termine “emancipazione”, ricorre alla celebre definizione kantiana dell’uscita dallo stato di minorità. Kant sosteneva infatti che essere spettatori pubblici e disinteressati di un evento, anche se svolto a grande distanza da noi (il suo esempio riguardava la Rivoluzione Francese), non significa ritrovarsi in una posizione passiva o distaccata, ma, al contrario, significa “partecipare” a quell’evento nella forma propria dell’universale, sconfinando addirittura nell’entusiasmo vero e proprio (Kant, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, par. 6). Sia Kant che Ranciére, dunque, anche se in modo molto diverso, sostengono che essere spettatori implica sempre un’attività peculiare, e non una semplice forma di passività.

Potremmo formulare però una seconda ipotesi: ovvero, che la “liberazione” dalla passività dello spettatore deve passare a sua volta per una sorta di “liberazione” dalla rappresentazione stessa, ovvero per un movimento di fuoriuscita dal medium da parte di chi ne usufruisce. Quest’ipotesi presuppone ciò che indirettamente sostiene anche Ranciére, e cioè che il soggetto/spettatore possa disporsi simbolicamente sullo stesso piano della sua “contro-parte”; tuttavia, a mio avviso, la questione riguarda anche la “natura” peculiare del tipo di fruizione, nel senso che alcune forme di rappresentazione consentono maggiormente tale “fuoriuscita simbolica” - almeno in via potenziale - ed altre decisamente meno. È questo il punto focale che mi permette di introdurre le prime differenze tra le diverse modalità di esperienza della rappresentazione che prenderò in esame: l’esperienza del virtuale e l’esperienza della fiction. La differenza riguarda essenzialmente: a) il diverso grado di autonomia del soggetto/spettatore; b) la diversa articolazione del rapporto tra verità e falsità; 3) le differenti possibilità liberatrici e di emancipazione che ci pongono davanti, oltre al grado di alienazione e di soggezione che, dialetticamente, esse stesse producono.

Ho già detto che mi concentrerò sull’esperienza cinematografica. Non è però mia intenzione avventurarmi in una discussione sulla “teoria del cinema”, analizzando ad esempio il Deleuze de L’Image-mouvement e L’Image-temps, oppure la monumentale Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard. Per confrontare davvero Cinema e Virtualità bisogna a mio avviso soffermarsi essenzialmente sulle modalità di fruizione di un’opera cinematografica, cioè sulla peculiare esperienza della rappresentazione che ciò comporta. E sono due le caratteristiche principali di questa esperienza che proverò a illustrare: la prima, riassunta con un’espressione di Virginia Woolf, consiste nella perturbante esperienza di osservare la vita «così com’è quando non abbiamo un ruolo in essa», ovvero come essa è in nostra assenza; la seconda, che proverei ad indicare con la metafora dei “titoli di coda”, riguarda invece l’esperienza che si consuma nel peculiare tempo di passaggio che intercorre tra la fine di un film e l’uscita degli spettatori dalla sala cinematografica.

 

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Il saggio di Virginia Woolf del 1926 si intitola The Movies and Reality, tradotto recentemente da Mimesis col titolo Il cinema. Anche se il materiale a sua disposizione era piuttosto limitato, circoscritto alla nascente cinematografia inglese (legata soprattutto alla trasposizione letteraria, di carattere storico o documentaristico) Woolf si interrogava in modo sorprendente sulle potenzialità ancora inespresse della nuova arte, a suo dire ignote persino agli stessi registi. E quest’interrogazione giunge ad affrontare proprio lo statuto peculiare dell’immagine filmica, del suo rapporto col reale e della sua fruizione da parte dello spettatore.

 

Cos’è che lo stupisce [Woolf si riferisce all’occhio dello spettatore, ndr.], dunque, destandolo all’improvviso nel mezzo del suo piacevole torpore? L’occhio è in difficoltà. L’occhio vuole aiuto. L’occhio si rivolge al cervello. “Sta accadendo qualcosa che non comprendo affatto. C’è bisogno di te”. Assieme guardano quel Re, quell’imbarcazione, quel cavallo ed il cervello, immediatamente, si accorge che essi hanno assunto una qualità che non appartiene più alla semplice riproduzione della vita reale. Non sono divenuti più belli, nel senso in cui le immagini si dicono belle, ma dovremmo definirli (il nostro vocabolario è miseramente insufficiente) più reali, o reali di una realtà differente da quella che noi percepiamo nella vita quotidiana? Scorgiamo come essi sono in nostra assenza. Vediamo la vita così com’è quando non abbiamo un ruolo in essa. Mentre li fissiamo, sembrano essere espulsi dalla meschinità della vita reale. Il cavallo non ci calpesterà. Il Re non ci stringerà le nostre mani. L’onda non bagnerà i nostri piedi. Da questa posizione privilegiata, mentre osserviamo i capricci della nostra specie, abbiamo il tempo di provare compassione e diletto, di generalizzare, di attribuire ad un solo uomo le qualità della specie tutta […] E a volte, al cinema, nel mezzo della sua smisurata destrezza ed immensa competenza tecnica, si apre il sipario e scorgiamo, in lontananza, qualche sconosciuta e inaspettata bellezza. Ma ciò accade per un solo istante. Perché è accaduto un fatto strano - al contrario delle altre arti che sono state concepite nude, questa, la più giovane, è stata concepita completamente abbigliata. È in grado di dire tutto prima che abbia qualcosa da dire[2].

 

Seguendo il discorso di Woolf, potremmo dire che l’esperienza cinematografica pone il soggetto/spettatore ad una doppia distanza da ciò che ha di fronte: una distanza per così dire classica, aristotelica, che consente la catarsi da ciò che viene rappresentato; e una distanza di tipo nuovo, perché riguarda l’occhio umano nell’atto stesso della sua visione. Le cose si presentano davanti allo spettatore come se fossero vere, reali, tangibili, ma non potranno toccare, stringere o bagnare il corpo che le osserva: sono reali, certo, ma paiono come «espulse dalla meschinità della vita reale», impossibilitate al contatto, come se l’osservatore diventasse improvvisamente invisibile e si aggirasse per il mondo, tra le case, in mezzo alle persone. Ovviamente, tutto questo stupore per noi oggi pare quasi surreale, abituati come siamo al bombardamento di immagini 24h/24. Ed infatti si posiziona agli albori del cinema. Oltretutto, ad emergere è prima di tutto la complessità tecnica del cinema, il suo costitutivo “realismo visivo”, ovvero la similitudine con l’esperienza dell’occhio umano; caratteristiche che, ad esempio, il teatro inteso in senso classico, come teatro di parola e di messa in scena, di assi che scricchiolano e di evidente “fiction”, non possiede (diverso il caso, ad esempio, di alcune esperienza teatrali contemporanee, che puntano invece sull’immagine sincretica, cioè mischiata con musica e recitazione, che prova a porsi come vera e propria esperienza sensibile trasfigurata, come nel caso dei lavori della «Raffaello Sanzio Societas»).

Questa strana esperienza di un occhio che guarda la realtà come se non ci fosse un corpo concreto ad esperirla, che rende lo spettatore anonimo e quasi invisibile - non a caso il rapporto cinema/voyerismo verrà indagato da decine di registi, prima fra tutti Hitchcock - ha luogo nello spazio a metà strada tra un “tempio” e un “circo” che è la sala cinematografica. Il suo buio pare quasi favorire l’anonimato di chi guarda, sì che lo spettatore sembra catturato in quello che il critico francese Serge Daney definiva una sorta di “elitarismo popolare”, che consente a chiunque di entrare in rapporto con qualsiasi cosa, anche in mezzo ad altra gente[3]. Catturato, tuttavia, ma non fino in fondo. Perché quella sullo schermo è una vita che non potrà mai appartenere al suo spettatore, che non potrà mai lasciarlo davvero “entrare”.

Non è un caso, forse, che una delle prime riflessioni meta-cinematografiche riguardi proprio questo peculiare rapporto tra schermo, spettatore e realtà. Mi riferisco ad uno dei capolavori di Buster Keaton, Sherlock Jr. del 1924, di cui ad esempio René Clair scrisse che svolse per il cinema un ruolo «paragonabile a ciò che furono per il teatro i Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello». In una celebre scena, il protagonista, che di mestiere fa il proiezionista e che è appena stato vittima di un raggiro da parte del suo rivale in amore, si assopisce sconsolato nel bel mezzo di una proiezione, si sdoppia magicamente e la sua immagine onirica vede improvvisamente, al posto degli attori che interpretano il film, proprio la sua bella e il suo rivale. Inizia, cioè, a proiettare la propria storia in quella del film, fino a cambiarne i volti e le espressioni. Si avvicina sempre più allo schermo, mentre gli spettatori continuano tranquilli a guardare il “vero” film, e ad un tratto decide di «entrare nello schermo».

Assistiamo quindi al trauma di Buster Keaton che, come scrive il critico cinematografico Giorgio Cremonini, «si ritrova catapultato dentro il continuo cambiamento degli spazi imposto dal montaggio: un giardino, una strada, una tana di leoni, un deserto», in un crescendo sempre più vertiginoso e surreale. Successivamente, riesce anche ad assumere a suo modo un “ruolo” nella storia, quello di un detective che risolve un complicato caso di furto e salva la ragazza dai banditi. Alla fine del film, la stessa ragazza lo raggiunge nella sala di proiezione e lo sveglia, svelandogli con rimorso che ha scoperto l’inganno perpetrato ai suoi danni. Il protagonista, gettando sguardi furtivi allo schermo, imita i due “veri” attori, accarezza e infine bacia la ragazza. Poi però si ferma, perplesso: uno stacco di montaggio ha infatti mostrato i due attori del film sposati e circondati di bambini. Ecco lo scarto, l’impossibilità di «imitare fino in fondo» la vita sullo schermo. Bisogna fuoriuscirne, definitivamente, un po’ per scelta, un po’ per necessità.

Lo sguardo dubbioso di Buster Keaton cattura meravigliosamente quest’enigma.

 

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Torniamo ora alla sala, perché la seconda caratteristica cui accennavo riguarda esattamente il modo in cui si è organizzata la visione filmica all’interno della sala cinematografica, attraverso un peculiare rapporto tra dentro/fuori, luce/buio.

Che succede quando ritorna il buio nella sala? Io credo che in fondo esista la necessità, per la rappresentazione cinematografica, di scomparire, di eclissarsi, altrimenti non funzionerebbe come tale, ma come qualcos’altro – e cioè come un esperienza simbolica, cui siamo sempre in qualche modo esterni, che ci accoglie in quanto appartenenti ad una medesima comunità di senso, oppure come un’esperienza di simulacro, da cui non riusciamo ad uscire, che ci rinchiude all’interno di un rapporto “autistico” con la realtà. Questo perché è nello spazio reso vuoto dalla sua sparizione che ha luogo il momento decisivo dell’esperienza cinematografica.

La sala cinematografica, fin dagli albori della cinematografia intesa come arte della rappresentazione in movimento, somiglia in questo all’antico teatro delle ombre cinesi, che non a caso un attento cinefilo come Sergio Leone poneva in apertura del suo C’era una volta in America, trasponendolo in una fumeria d’oppio della New York anni ’30. L’apparizione e la sparizione delle figure, in un’arte che risale forse in Cina ai primi secoli dopo Cristo, avveniva su un telo bianco semi-trasparente, dietro cui gli attori muovevano delle figure di carta che una potente luce bianca ingigantiva e rendeva animate.

Quando i fratelli Lumière trasformarono quelli che fino ad allora era stati dei semplici esperimenti scientifici in una nuova, dirompente, forma di spettacolo, e il 28 dicembre 1895, al Gran Café del Boulevard des Capucines di Parigi, presentarono il primo film della storia in una piccola saletta resa buia per l’occasione, l’impressione dei pochi presenti (paganti) fu enorme. Durante la proiezione di circa mezz’ora, che comprendeva La sortie des usines Lumière e Le repas du bébé, tutti affermarono di essersi ritrovati completamente immersi in quel miracolo di immagini in movimento, come catturati una sorta di esperienza totalizzante, quasi extra-corporea. Quando il buio piombò nuovamente nella sala, quando la sequenza animata di immagini sparì, si resero conto lentamente di quel che era successo e, con gli occhi ancora pieni di meraviglia, coprirono di applausi i due fratelli che se stavano nascosti nel fondo, dietro il loro Cinématographe. Pur senza voler seguire troppo il filo della suggestione, in quel breve lasso di tempo tra l’apparizione e la sparizione dell’immagine in movimento, quando l’occhio entusiasta della propria onnipotenza s’era trovato dinnanzi lo schermo bianco e la luce spenta, proprio in quel momento, per la prima volta, avveniva una nuova esperienza del reale, attraverso una finzione artificiale proiettata malamente su una parete.

Ovviamente quest’evento, dal carattere quasi mitico, momento aurorale della visione filmica, si trasformò in un breve volgere di anni nel più grande fenomeno di massa del nuovo secolo, con le sale cinematografiche che si moltiplicavano rapidamente tanto nelle grandi città quanto nei piccoli paesini (senza contare una prima fase, molto suggestiva, in cui il cinema era itinerante e si muoveva di piazza in piazza come uno spettacolo di marionette). La sala cinematografica divenne il luogo in cui si veniva trasportati altrove, e la sua potenza scenica metteva in secondo piano forme più tradizionali come il teatro o l’opera (sì che un grande “teatrante” come Orson Wells sosteneva che solo il cinema avesse un futuro, mentre il teatro era sostanzialmente morto). Tuttavia, sia che la rappresentazione cinematografica si posizionasse sulla scia dei Lumière (rappresentazione dinamica della nuova realtà industriale e dei suoi miti - treni, fabbriche, scenari urbani), sia che la si intendesse come faceva George Méliès (possibilità tecnica per nuovi trucchi sempre più complessi, commuoventi, surreali), ad un certo punto essa doveva necessariamente sparire, lasciar spazio al buio della sala, permettere che il rito collettivo proseguisse all’esterno, fuori dallo schermo.

È interessante notare come, progressivamente, questo “spazio vuoto” verrà “occupato” da qualcos’altro (i cinegiornali, la propaganda di guerra, la pubblicità), diventando preda del più grossolano indottrinamento ideologico così come della più sofisticata cooptazione all’interno società dei consumi. Rimandando di continuo il momento del “buio”, della fuoriuscita dall’immagine, del ritrarsi del soggetto dalla fusione con la rappresentazione che ha davanti agli occhi, si trasforma di fatto la peculiarità dell’esperienza cui si faceva prima riferimento, si elidono le sue potenzialità. Elenchiamole:

a. il soggetto riesce a fuoriuscire dalla rappresentazione non per sua semplice iniziativa (cosa che potrebbe avvenire in qualsiasi momento), quanto piuttosto per una proprietà che è costituiva di quella stessa rappresentazione: ovvero, per la sua necessaria sparizione nel buio della sala, che reinserisce nella realtà fatta di sedie che scricchiolano, voci che si alzano, luci che si accendono. È il mondo vero che giunge addosso dopo il mondo falso. L’autonomia del soggetto riemerge anch’essa con lo stropiccio degli occhi e col ritorno, imprevisto o fragoroso, alla parola.

b. la verità e la falsità si confondono, si inseguono e si mescolano, come in ogni rappresentazione riuscita, potremmo dire. Tuttavia, permane sempre quell’antica componente fatta di ombre che si allungano e di trucchi che si negano, attraverso cui si riesce a godere del falso come se fosse vero solo a patto di accettare la dimensione dell’illusione, come quando si segue un prestigiatore fare le sue “magie”, che lasciano sbigottiti, pur sapendo bene che non si tratta di magia in senso assoluto (un bravo prestigiatore dichiara questa distinzione prima ancora di cominciare il suo numero). « È solo un trucco», afferma il protagonista dell’ultimo, osannato film di Paolo Sorrentino, e quella frase si pone forse, nel 2013, come un epitaffio del cinema tutto.

c. «Il cinema non cambia il mondo», ripetono da sempre i cineasti più impegnati, ed è verissimo. L’emancipazione che ci viene da questa esperienza della rappresentazione batte infatti altre strade: riguarda essenzialmente la possibilità di emanciparsi dalla rappresentazione stessa, di non soccombere ad alcun enigmaticità irrisolvibile, di non rifarsi ad nessun senso pre-esistente per comprendere ciò che esperiamo, riguadagnando il filo libero dell’interpretazione senza abolire il reale, senza renderlo un semplice riflesso autistico. Per questo l’emancipazione dalla rappresentazione si situa al suo margine, nello spazio vuoto della sua sparizione, e non certo nel nulla assordante della sua assenza.

Queste potenzialità, attraverso cui il cinema ha modificato in maniera significativa l’antropologia del Novecento, possono rivelarsi molto utili per comprendere ciò che il nostro seminario definisce le anestesie del presente. La sala cinematografica è infatti parzialmente implosa, sommersa dalla televisione e dai nuovi mezzi virtuali, sopravvivendo solo come appendice di un sistema di rappresentazioni (e di simulazioni) del reale che non termina mai, che rifugge dalla sua stessa sparizione come fosse la peste. Si tratta forse di un’ulteriore perdita dell’aura dell’opera d’arte, che dalla riproducibilità collettiva (il cinema) approda infine a quella privata e reiterabile all’infinito (lo schermo in ogni casa, o addirittura in ogni luogo - il tablet)? Oppure si tratta della progressiva “sterilizzazione” della rappresentazione, priva di qualsiasi rimando immaginifico ad un altrove che superi il muro di immagini perenni in cui siamo immersi? O è forse solo la realizzazione del sogno di qualche regista visionario (Fellini), il quale auspicava, in futuro non troppo lontano, che il film potesse essere proiettato direttamente nel cervello di ciascun spettatore?

 

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Tuttavia, anche a dispetto di ciò che abbiamo appena detto, i film si continuano a vedere, su un piccolo schermo portatile così come sui giganteschi schermi 3D. Cosa è cambiato allora? Io credo che sia stato progressivamente soppresso quello “spazio” simbolico, fatto di assenza e di distanza, che rendeva l’esperienza della rappresentazione cinematografica potenzialmente liberatrice per lo spettatore. Il virtuale è per sua stessa natura un wide space, che per quanto abnorme rimanda sempre a qualcos’altro. Ha una caratteristica sottaciuta: non è mai vuoto, così come la televisione, che trasmette in eterno il suo segnale e la sua “offerta”.

Vorrei a questo proposito presentarvi un ultimo brano, che permetterà di avviarci alla conclusione. È di Günther Anders, un autore che mi è già capitato di utilizzare in passato per la rivista, ed è tratto dal secondo volume de L’uomo è antiquato. Interrogandosi sulla natura peculiare del conformismo nella società di massa (dove mai «il dominio è stato esercitato con così buona coscienza»), Anders tratteggia attraverso un esempio illuminante il modo in cui il consumatore odierno fa “esperienza” dei prodotti che gli vengono offerti/comandati (giocando sull’ambiguità del verbo tedesco “geboten/gebieten”) dalla società capitalistica.

 

Noi veniamo conformati attraverso un processo il cui effetto ci resta impercettibile, del cui effetto insomma non ci accorgiamo. E non ce ne accorgiamo per il semplice fatto che esso è più di un singolo processo, ovvero di un processo che avevamo inteso come una singola misura repressiva. Piuttosto è il processo ininterrotto, in definitiva nient’altro che il modus di come si è trattati, quello di cui perennemente “facciamo l’esperienza” (cioè: da cui veniamo permanentemente impressionati). E proprio per questo non lo “sperimentiamo” (nel senso che non lo “appercepiamo”). Poiché ciò di cui si “fa esperienza permanente” (nel senso del venire impressionati) non lo si “sperimenta” (nel senso di appercepire). Le condizioni dell’esperienza non sono gli oggetti dell’esperienza. La pressione dell’oceano, di cui i pesci permanentemente “fanno esperienza” (cioè: da cui permanentemente vengono colpiti), essi non la “sperimentano” (nel senso che non la appercepiscono). Piuttosto questa pressione fa parte fin dall’inizio del loro meccanismo di movimento, anzi dell’intera struttura dei loro corpi. Lo “schema di coercizione” è diventato la conditio sine qua non della loro vita di modo che, quando vengono issati a bordo dai pescatori, scoppiano. […] Lo stesso vale anche per certe condizioni artificiali prodotte dall’uomo. Nella nostra esistenza è calcolato il modus con cui veniamo trattati e a cui siamo sottoposti permanentemente. Pertanto, non ne “facciamo esperienza”; o al massimo, la facciamo solo quando esso viene meno provvisoriamente: infatti, soltanto l’assenza rende visibile la presenza quotidiana[4].

 

L’assenza momentanea di cui parla Anders, che rende percepibile l’oceano di rappresentazioni di cui facciamo esperienza in maniera coattiva, rischia sempre più di farci scoppiare come i pesci abissali issati su una barca. È un’assenza cui ci stiamo completamente disabituando. Perché quelle rappresentazioni non ci mantengono più “fuori” di esse, magari lasciandoci con il desiderio frustato di “entrare” nella vita sullo schermo, così distante eppure così vicina. Nel virtuale lo spettatore non sperimenta né l’anonimia (in senso positivo, come anonimia collettiva in situazione, non l’anonimia di chi, al riparo di uno schermo, può diventare chiunque e scrivere qualunque cosa) e neppure sperimenta il piccolo trauma dei “titoli di coda”, ovvero dell’uscita forzosa ma benefica dall’esperienza della visione, che permette di riguadagnare a fatica il reale attorno, qualunque esso sia. Certo, un film si può rivedere più volte, così come un libro si può riaprire, e al tempo stesso una pagina internet si può chiudere e un programma tv si può spegnere. Tuttavia, nei primi casi ci ritroveremo sempre allo stesso punto, nelle stesse identiche situazioni, mentre negli altri casi tutto sarà diverso, nuove informazioni e nuovi spettacoli ci “re-immergeranno” (per riprendere la metafora di Anders) nella pressione continua delle rappresentazioni, senza assenza, senza distacco. Rappresentazioni che si presentano come trasparenti, più “vere del vero” e perciò sempre “in-equivoche”, perché sussumono la realtà empirica e ce la ripresentano bastante a se stessa. Questo modo di esperienza – che, come dicevo all’inizio, potremmo considerare in un certo senso autistico – vorrei definirlo appunto esperienza-simulacro, poiché “simula” un’esperienza che, non trovando mai realmente lo spazio e il tempo della sua assenza, viene continuamente “rimandata” in avanti, e in molti casi non avviene mai. Almeno non “dentro” la rappresentazione stessa.

Concludo con un aneddoto: si dice che il gruppo dei surrealisti francesi, capitanato da Andrè Breton, corrèsse letteralmente di cinema in cinema e di sala in sala, muovendosi freneticamente per Parigi alla ricerca di una visione cinematografica sempre nuova, mettendo insieme brandelli di pellicola spesso molto diversi tra loro (soprattutto Chaplin e Keaton, per tornare ai temi trattati prima); e, detto per inciso, questo modo naif di approcciarsi al Cinema fu uno dei motivi della rottura col gruppo surrealista di un cineasta assoluto come Luis Buñuel. Tuttavia, quello che negli anni ’20 era solo un vezzo avanguardistico, oggi è la situazione comune dell’utente di YouTube, che di “surrealista” ha ben poco.

Che conclusioni potremmo trarre da questo excursus, certamente parziale e incompleto? In cosa consiste la liberazione dello spettatore? Io credo che la rappresentazione filmica, attraverso l’esperienza co-essenziale della sala cinematografica, ci fa rivivere il reale, come dice Virginia Woolf, così come esso è (o potrebbe essere) in nostra assenza, ci mostra la vita «quando non abbiamo un ruolo in essa». È un’esperienza potenzialmente liberatrice, non soltanto per il suo valore estetico o per i «momenti di bellezza» che ci restituisce, ma perché insegna a muoversi a margine del reale, con il passo falsato della rappresentazione. Ci insegna cioè a ritrovare, nel tempo della sua sparizione, nel buio della sala che cede lentamente il posto alla luce, il rumore amico di un reale che osserviamo e giudichiamo con occhi diversi.

 

GIUGNO 2014


[1] Questo progetto ha come titolo provvisorio Simboli, rappresentazioni, simulacri, e si propone di indagare ciò che si potrebbe definire la nostra “esperienza della rappresentazione” in rapporto a diversi ambiti della vita culturale e sociale, con l’intenzione di individuare una linea, teorica e storica al tempo stesso, di continuità e di discontinuità, che contribuisca a chiarire i tratti peculiari dell’esperienza della “virtualità” nell’epoca contemporanea. Si tratta di un progetto in progress, sviluppato nell’ambito di un gruppo collettivo di ricerca, di cui il presente intervento potrà costituire una sorta di esemplificazione e di introduzione, pur nella sua parzialità e nei suoi limiti.

[2] V. Woolf, Il cinema, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2012, pp. 9 e 16.

[3] Scrive Daney: «Ciò che è stato magnifico con il cinema è che un individuo (l’autore, l’attore) poteva comunicare con un altro individuo nell’anonimato collettivo della sala. Era elitario, certo, ma di un elitarismo popolare che funzionava per uno qualsiasi».

[4] G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 183-184.