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Ottobre 2014

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DA LAVORATORI A BLOGGERS?

Benjamin, Lukàcs e il mito della Coscienza di Classe

Massimiliano Di Leva

 

Tutti cercano la felicità, nessuno eccettuato; per quanto siano diversi i mezzi che impiegano, tutti tendono a questo fine.... se gli uni vanno alla guerra, e gli altri non ci vanno, è per questo stesso desiderio, che agisce in entrambi ma accompagnato da vedute diverse. Ogni più piccolo moto della volontà tende a questo oggetto, questo è il motivo di tutte le azioni, di tutti, anche di quelli che si impiccano.

(Blaise Pascal)

 

Nella settima delle Tesi di Filosofia della Storia, Benjamin disegna chiaramente la linea di demarcazione tra storicismo e materialismo storico. Il punto di rottura è il concetto di Einfühlung. Un’analisi più approfondita di questo termine spesso tradotto come “immedesimazione” è essenziale per comprendere l’ottica in cui l’autore inserisce la propria critica dello storicismo. Benjamin afferma: «Non si potrebbe definire meglio il metodo con cui il materialismo storico ha rotto i ponti. È un processo di immedesimazione (Einfühlung[1]. Ciò si attua con il «cacciarsi di mente tutto quello che egli [lo storico] sa del corso successivo della storia». Tale è il metodo dello storicista. La connotazione del termine risulta chiara nella frase successiva in cui Benjamin stabilisce che l’origine di questo processo è «l’indolenza del cuore (die Trägheit des Herzens), acedia»[2]. Il termine greco ἀκηδία descrive uno stato di apatia o torpore, noncuranza o disinteresse nei confronti del mondo. Nella tradizione scolastica, il termine acedia viene riferito allo stato di malinconia o incapacità di lavorare o pregare che colpisce la vita contemplativa. Appare evidente che alla base del concetto di Einfühlung, dal punto di vista benjaminiano, vi sia una mancanza di pathos (nell’accezione greca di emozione vitale). L’intero processo rappresenta un esercizio puramente speculativo, relegato nello spazio della mera contemplatività. Dall’altro lato, la «genuina immagine storica» (des echten historischen Bildes) ricercata dal materialista storico è puro pathos, esplosione improvvisa che «balena fuggevolmente» (das  flüchtig aufblitzt). È colma di densa individualità ed emozione intima. Tale interpretazione appare corroborata dal passaggio in cui Benjamin prende l’esperienza poetica di Flaubert come esempio di quella peculiare forma di tristezza da cui si origina l’acedia. Benjamin riprende una frase in francese: «Peu de gens devineront combien il a fallu être triste pour ressusciter Carthage»[3] [Poche persone immagineranno quanto è stato necessario essere tristi per resuscitare Cartagine]. Il riferimento risulta abbastanza criptico. Cosa mette in connessione la resuscitata tristezza flaubertiana alla base dell’allegoria poetica con l’indolenza medievale considerata progenitrice dell’ignavia? La citazione è presa da una lettera che Flaubert scrive a Ernest Feydeau (Croisset, 29-30 novembre 1859). Leggendola nel contesto, si può forse intendere cosa Benjamin avesse in mente: «Quand on lira Salammbô, on ne pensera pas, j’espère [il corsivo è mio], à l’auteur ! Peu de gens devineront combien il a fallu être triste pour ressusciter Carthage!» [Quando si leggerà Salammbô, spero che nessuno pensi all’autore! Poche persone immagineranno quanto è stato necessario essere tristi per resuscitare Cartagine]. Flaubert dichiara il proprio desiderio di sopprimere ogni forma di emozione personale e la volontà di raggiungere la pura idea universale che contenga ogni individualità. Egli mostra «come i passi compiuti per distanziarsi dal sentimento personalizzato lo abbiano condotto lontano dalla “tristezza” e verso il deserto» che è il luogo flaubertiano privilegiato del vuoto e della morte, origine dislocata del paradiso perduto[4]. Einfühlung s’identifica con questa vacuità, la completa assenza di emozione. Per gli storicisti, è l’apatica immedesimazione con il freddo istinto dominatore dei vincitori, con l’universale indifferenza delle leggi di natura. Il materialista storico “distanzia” (abrücken) se stesso dal processo della tradizione (das Prozeß der Überlieferung), dalla consolidazione del passato come eterno presente dei vincitori. Egli si pone al fianco di coloro «che giacciono prostrati» e contempla la falsificazione dell’ordine naturale con orrore. Il materialista storico non è un osservatore distaccato (ein distanzierter Betrachter) nel senso di freddo spettatore. Ciò lo porterebbe al vuoto flaubertiano. Egli sente l’orrore del dominio. Non è un apatico commentatore pronto a saltare sul carro del vincitore. Benjamin si oppone qui ad ogni tipo di contemplatività, la classe di intellettuali indolenti, gli «uomini della mente» contro cui egli argomenta in L’autore come produttore. Egli contrappone alla loro intorpidita tristezza la “felicità” che è presentata come orientamento per «l’ordine del profano» nel Frammento teologico-politico[5]. Il «telos della dinamica storica» è qui rappresentato dalla venuta del Regno messianico. In questa dialettica di opposizioni Identico/Dinamico, Vita contemplativa/Ordine del Profano, in ultima analisi Teoria/Praxis, la venuta del Regno è annunciata dalla lotta di classe.

Nella iv delle Tesi sulla Filosofia della Storia, Benjamin afferma:

«La lotta di classe [...] è una lotta per le cose crude e materiali senza le quali non posso esistere quelle raffinate e spirituali»[6].

Tale affermazione sembra andare contro uno dei concetti fondamentali della teoria marxista di classe, ovvero quello di Klassenbewusstsein, ovvero coscienza di classe. Cercherò di dimostrare come la questione posta da Benjamin rappresenti il nucleo essenziale del tema, vale a dire come il mito di coscienza di classe abbia distorto l’intera teoria.

Cos’è la coscienza di classe? Secondo la vulgata marxista, due furono le ragioni per cui agli albori della rivoluzione industriale il proletariato fu facilmente espropriabile: da un lato, i paleo-proletari mantennero la stessa coscienza dei loro padri (agricoltori e artigiani); dall’altro, non avevano mai avuto la possibilità di esperire l’unione sindacale. In una parola, non avevano ancora raggiunto la propria coscienza di classe.

Secondo Lukács, uno degli elementi essenziali della coscienza di classe è l’oggettività, o negazione della soggettività dell’individuo all’interno del gruppo e di quella del gruppo stesso. Il concetto classico di coscienza legato all’esperienza individuale non ha nulla a che vedere con la coscienza di classe. Come egli scrive in Storia e coscienza di classe (1920): «La coscienza di classe non è la coscienza di singoli proletari oppure la coscienza (intesa in termini di psicologia di massa) della loro totalità, ma il senso divenuto cosciente della situazione storica della classe (der bewußt gewordene Sinn der geschichtlichen Lage der Klasse)»[7]. Questo significa chiaramente che non vi è un soggetto reale della coscienza di classe. Quindi, chi detiene questa coscienza se non il singolo proletario o il proletariato come tutto? La risposta è nella critica che Lukács muove allo storicismo. Nel rifiuto delle leggi naturali come forze predeterminate che guidano la Storia, egli afferma l’indipendenza di quest’ultima come soggetto indipendente. Quel “senso” è effettivamente incarnato dallo spirito della Storia che guida gli uomini ad agire in una specifica situazione come «se (i proletari) fossero stati in grado di cogliere pienamente questa situazione e gli interessi da essa emergenti, sia in rapporto all’agire immediato, sia in rapporto alla struttura conforme a questi interessi dell’intera società»[8]. Le azioni umane sembrano così essere guidate da forze che sono allo stesso tempo strettamente legate alle esistenze individuali e da esse indipendenti. L’uomo appare come un attore cieco in un’opera scritta da un autore chiamato a sostituire la Natura, ma che condivide con questa la medesima astrattezza. Lukács sottolinea, inoltre, la dimensione inconscia della coscienza di classe, affermando che essa è «allo stesso tempo un’inconsapevolezza (Unbewußtheit) classicamente determinata rispetto alla propria situazione economica storico-sociale»[9]. L’individuo è essenzialmente inconsapevole della propria condizione, ma ha una inconsapevole coscienza di questa.

Il problema è, a questo punto, capire per quale motivo il proletariato si organizzi e muova all’azione. Lukács afferma che è dall’interna contraddizione dialettica della coscienza borghese che la classe operaia esce dalla pura negatività e «riceve una propria figura storica cosciente ed attiva»[10]. Da quel momento tutto sembra mutare. Partendo da un confusamente identificato momento in cui «la teoria e la praxis del proletariato hanno elevato sino alla coscienza sociale questo principio inconsapevolmente rivoluzionario dello sviluppo capitalistico»[11], il proletariato cessa di essere un soggetto cieco e prende coscienza delle proprie azioni. Ma come accade tutto ciò? Il proletariato continua a non giocare alcun ruolo attivo. È forzato dalla «necessità storica (geschichtlich Notwendige ad agire. Se andiamo ad investigare il presunto percorso autoconoscitivo del proletariato che Lukács analizza nel saggio su Reificazione e coscienza del proletariato[12], il percorso da lui descritto appare non privo di contraddizioni. Atto di nascita della coscienza del proletariato è la presa consapevolezza da parte di questo del problema del tempo-lavoro. Come appena sottolineato, esso come soggetto-oggetto della Storia è «sospinto (hinaustreiben[13] da una necessità deterministica. L’autore è molto chiaro a riguardo. Il proletario gioca un ruolo di per se stesso irrilevante in questa partita[14]. Egli è semplicemente il punto di forza che la Storia utilizza per far leva e scardinare la struttura sociale. Messo dinanzi all’annientamento della propria umanità in nome del mercato di scambio, egli dovrebbe prendere coscienza di se stesso come merce. È, tuttavia, difficile comprendere le dinamiche di questa improvvisa illuminazione. Perché il proletario, infatti, si possa percepire come merce è necessario che prenda coscienza innanzitutto della complessa architettura nella quale la società capitalistica ha fissato i rapporti di forza tra le parti. Non è qualcosa che può avvenire per una pura necessità endogena della concatenazione storica o della logica del capitale. In tali condizioni, quello che il proletario può effettivamente percepire è lo sfruttamento della sua persona fisica dovuto a condizioni di lavoro massacranti o eventualmente il proprio essere oggetto che vende se stesso. È questo sufficiente per parlare di autocoscienza? Inoltre, per percepirsi come oggetto è necessario che egli in primo luogo concepisca la dialettica soggetto-oggetto, struttura intellettuale che non può essere semplicemente intuita come la dialettica io-altro alla base della coscienza del Sé. Ma mettiamo l’ipotesi che l’educatore qui intervenga[15] e ponga il proletario dinanzi alla sua condizione di oggetto nelle mani del capitalista. Questo già di per contraddice il principio della necessità storica e dell’immediatezza dell’autocoscienza, in quanto attraverso l’intervento esterno vi è una coscienza indotta e non autoriflessiva. Ma ancora più importante, è sufficiente questo intervento esterno per suscitare la comprensione profonda del fenomeno della reificazione che tante implicazioni intellettuali possiede? La risposta è no e lo stesso Lukács ne è consapevole, infatti, nel testo afferma che la classe operaia «si sente annientata nell’estraneazione, vede in essa la sua impotenza». La molla che fa uscire effettivamente il proletario della propria inconsapevolezza è la frustrazione, che esso vive nei confronti di un potere che lo schiaccia inesorabilmente e lo consuma fisicamente. Ecco perché non può che degenerare in violenza. Quella che si vuole fa passare per autocoscienza non è altro che desiderio di riscossa da una prostrazione fisica, incisa nella carne. E cosa accadrebbe se l’operaio accettasse la propria condizione di merce pur di garantirsi la sussistenza? Il rifiuto del sistema può nascere solo dalla consapevolezza ideale della soggettività. L’operaio lotta per condizioni lavorative migliori, non per lo scopo ultimo indicato già da Marx quale fine della lotta di classe, ovvero l’abolizione del sistema salariale[16]. Egli non mette in discussione l’assetto sistemico capitalistico. Questo sembra essere confermato dalle modalità in cui le rivoluzioni si sono dispiegate. In nessun paese industrializzato, si è avuta una reale rivoluzione proletaria. Se si prendono in considerazione i moti rivoluzionari nei paesi industrializzati europei nei primi decenni del xix secolo, leggiamo una dinamica ben diversa. Con la Rivoluzione di Luglio (1830) da cui poi la furia rivoluzionaria si propaga in Inghilterra e in vari altri paesi europei, assistiamo all’opposizione violenta della borghesia cittadina al tentativo restauratore da parte della monarchia. Nel 1848 saranno gli studenti, figli della borghesia parigina, ad innescare la rivolta. In tutti questi moti, il popolo o il proletariato è sempre e semplicemente trascinato da una furia che scaturisce altrove e che per frustrazione risuona empaticamente nella sua furia. La rivoluzione che dovrebbe essere l’esito ultimo ed inevitabile del processo di autocoscienza non avviene nei paesi industrializzati dove la lotta di classe (mediata dalle forme sindacali) diventa lotta per migliorare la condizione individuale del soggetto-merce e non per abbattere tale condizione. La rivoluzione proletaria, invece, si attua in quei paesi in cui il popolo vive una condizione personale ancora più disumana dell’operaio dei paesi industrializzati ed è spinto per fame o oppressione politica a ribellarsi. La stessa rivolta dei tessitori della Slesia, che tanto aveva colpito Marx e che Lukács richiama nel suo saggio viene provocata da un taglio improvviso dei salari da parte del costruttore Zwanziger nella intera regione, aggravato da una serie di pessimi raccolti[17]. Il proletariato sembra non essere disposto a rovesciare il sistema in cui la sua soggettività “riscoperta” è schiacciata. Ciò che sembra interessargli è mitigare quella condizione con un bilanciamento di tipo economico o delle condizioni lavorative. Siamo ben lontani dal fine ultimo che Marx sognava.

Quello che appare preponderante è la prostrazione del singolo che lotta per la sopravvivenza dinanzi ad una struttura di potere che lo sovrasta.

Proseguendo nel testo, dopo il momento epifanico della presa di coscienza, si assiste secondo Lukács alla genesi del proletariato come classe. Nell’analisi di tale passaggio, è come se l’autore percepisse quello scollamento fondamentale tra individuo e totalità; sottolinea, infatti, che per il proletariato «il senso di classe [...] consiste nella soppressione dell’isolamento (Aufhebung der Vereinzelung) che così si realizza nella presa di coscienza del carattere sociale dell’uomo»[18]. Ma uscire dall’isolamento e riconoscere un gruppo di appartenenza non indica necessariamente una presa di coscienza del proprio essere in quanto gruppo, ma il riconoscere piuttosto negli altri membri del gruppo un mezzo per l’ottenimento di un vantaggio personale e paradossalmente trasformare l’altro in oggetto funzionale. Questo conflitto tra interessi particolari (immediati) e interesse di classe (mediato) è ammesso e rapidamente liquidato da Lukács con un troppo sbrigativo «è ovvio che in questo caso l’immediatezza debba essere abbandonata»[19]. Ma come? L’immediatezza delle necessità individuali può essere abbandonata nel momento in cui essa venga pienamente appagata e non sublimata come egli sembrerebbe intendere. Il richiamo a ciò che di “umano” si è perduto nel processo di reificazione è costante nel testo, ma quello che in esso s’intende per “umano” appare più come una pura categoria intellettuale svuotata di ogni principio di realtà. È il concetto dell’umano che l’intellettuale ha sviluppato nella propria teoria: un “umano” da laboratorio, costruito in provetta. Ancora una volta, sembra che persino l’intellettuale che si pone al fianco dei lavoratori pecchi di quell’apatia che Benjamin rimproverava allo storicismo. Lukács sembra gettare un occhio distratto sulle contraddizioni che la teoria instaura con la realtà senza risolverle. Sembra quasi che il materialista storico, una volta scoperta l’artificialità delle leggi storiche, non si preoccupi più di piegare la storia alla propria idea. Paradossalmente quello che manca nel saggio sulla reificazione è proprio l’uomo con il suo carico esistenziale e le sue necessità quotidiane. La pragmaticità alla quale Lukács ambisce è quella che trasforma in realtà la sua idea, come uno scienziato che dopo aver elaborato un’ipotesi cerca di dimostrarla attraverso esperimenti di laboratorio.

Il proletario nella sua realtà sparisce ed è sostituito da un prototipo ideale, a sua volta, disciolto nella generalità del gruppo. Nel processo descritto, egli assurge nel trionfo delle contraddizioni sottolineate ad una dimensione nuova astrattamente intellettualizzata. Nel saggio sulla coscienza di classe dopo aver introdotto il punto di disvelamento della stessa, Lukács modifica il proprio approccio al proletariato e introduce nuove categorie per descrivere la sua comprensione della lotta di classe e tutte queste categorie sono categorie intellettuali. Se in un primo momento la violenza era la tattica della lotta di classe, dopo la trasformazione, la «verità» diventa «l’arma che porta alla vittoria»[20]. Il proletariato è improvvisamente chiamato ad una dinamica attività di discernimento per «una giusta comprensione dell’essenza della società (in das Wesen der Gesellschaft[21]. Senza spiegare come la dimensione intellettuale del singolo proletario possa essere conquistata, Lukács che rifiuta la dimensione psicologica della coscienza di classe identifica la maturità ideologica (ideologische Reife) della classe come l’unica possibilità di una rivoluzione reale[22].

Ci sono forti contraddizioni in questa concezione della coscienza di classe. In primo luogo, come è possibile per il proletariato raggiungere questa maturità ideologica? Chi ha il compito di portare i proletari a comprendere la natura della società e la rilevanza della loro presenza in essa? Inoltre, come Theodor Geiger ha rilevato, come può una coscienza non psicologica aspirare ad un obiettivo[23]?

È ormai abbastanza evidente che queste contraddizioni riflettano uno scarto essenziale all’interno del marxismo tra classe operaia e intellettuali. Lukács ha creato il concetto di coscienza di classe ed ha dovuto spiegare come fosse possibile per le classi che non potevano raggiungere una consapevolezza di tipo intellettuale muovere verso la rivoluzione. Era necessario inserire questo fenomeno nel quadro del materialismo storico. A tale scopo, egli utilizza un termine talmente pregno di significati e connesso con le radici stesse dell’individualismo che sarebbe stato impossibile non cadere in contraddizione. Il punto epifanico è confuso, imprecisato, carico di conseguenze contraddittorie. È questo il punto in cui non solo universale e particolare si incontrano, ma anche Storia e Natura. Quel punto è in realtà l’istinto di sopravvivenza. La ragione fondamentale per cui il proletariato e spinto alla rivoluzione è il bisogno. Il proletario non lotta per la giustizia dell’ideale come fa l’intellettuale, bensì contro l’ingiustizia della fame. Per il lavoratore, non esiste alcuna opposizione tra l’interesse immediato e lo scopo ultimo della lotta. Questo è una pura intellettualizzazione alla quale il lavoratore può difficilmente arrivare a meno di una indottrinazione forzata che ha poco a che vedere con la coscienza e la maturità ideologica.

Tutto ciò che ha a che fare con la Struttura muove secondo l’istinto di sopravvivenza, mentre gli ideali sono relegati nel dominio della Sovrastruttura. Questo principio non appartiene esclusivamente al proletariato. Alla base dei movimenti borghesi, si può riconoscere un istinto di dominio che è la modalità secondo la quale l’istinto di sopravvivenza si attua all’interno delle classi superiori. Con quello di sopravvivenza vorrei individuare così un concetto più ampio. Tale sopravvivenza non è la semplice lotta per evitare l’annientamento fisico. È, piuttosto, il conflitto costante per preservare ciò che ogni individuo riconosce alla base della propria sussistenza. Questi fondamentali sono cibo per il paleo-proletario, dominio per il borghese, una quantità minima di mezzi elettronici per il lavoratore/consumatore contemporaneo. Nella maggior parte dei casi, la Storia e il sistema economico capitalistico provvedono alla costante ridefinizione del concetto di sopravvivenza.

Qualunque lotta di classe (tra classi e all’interno della stessa classe) è una lotta per la sopravvivenza. Non c’è coscienza, non c’è consapevolezza, maturità ideologica.

In ultim’analisi la ragione profonda per cui il concetto di coscienza di classe non funziona è perchè il concetto stesso di classe non funziona.

Cosa è la Classe? Secondo Lenin:

«Le classi sono larghi gruppi di individui che differiscono gli uni dagli altri in virtù del posto che occupano in un sistema di produzione sociale storicamente determinato, in virtù delle loro relazioni (nella maggior parte dei casi, fisse e stabilite per legge) con i mezzi di produzione, in virtù del proprio ruolo nell’organizzazione sociale del lavoro e, di conseguenza, in virtù della dimensione della condivisione di ricchezza sociale di cui essi dispongono e le modalità di acquisizione di quest’ultima»[24].

Tutto ciò si riassume in una definizione essenziale: ‘classe’ è quel gruppo di individui che condividono interessi comuni e comuni relazioni al lavoro e ai mezzi di produzione.

Quando Lionel Robbins nel suo Saggio sulla Natura e il Significato della Scienza Economica (1932, 2nd ed. 1935) ridefinisce il concetto di Economia come disciplina che studia «il comportamento umano come relazione tra fini e mezzi scarsi che possono essere usati in maniera alternativa»[25], non sta solo eliminando la lotta di classe dagli studi economici, egli sta bensì cancellando la rilevanza dell’individuo nel processo economico, che è esattamente cosa avviene nella teoria della coscienza di classe, dissolvendo l’individuo nella totalità della classe. Questa totalità non avrebbe potuto incorporare tutte le singole individualità se non attraverso una imprudente universalizzazione. Il concetto di classe è un paradigma vuoto che non considera la diversificazione degli interessi all’interno della stessa classe.

Adorno nelle sue Riflessioni sulla Teoria della Classe presenta la classe borghese come prototipo di tutte le classi, la cui unità è «uno strumento per proteggere il privilegio del settore dominante sui suoi sostenitori nascondendolo»[26]. Vi è una essenziale non-unità della classe borghese che sottolinea «la sua non meno reale unità». La non-unità è collegata all’ineguaglianza di interessi all’interno della classe dei proprietari che per preservarsi tempera il conflitto interno costruendo l’idea di unità. Per la classe borghese, sembra essere più appropriato, quindi, parlare di  una coscienza di classe costruita ad hoc. È la coscienza edificata sull’istinto di sopravvivenza che ho precedentemente menzionato.

Non è questo il caso della classe operaia che non è mai uscita dalla propria non-unità. Il concetto di una classe proletaria unita non considera che all’interno della classe lavoratrice vi è almeno una distinzione essenziale tra “classe operaia” impiegata e “classe operaia” disoccupata che produce una lotta interna legata agli interessi differenti all’interno dello stesso gruppo che rompe la sua unità. Questa non-unità non può raggiungere alcuna coscienza di classe perché è intrappolata in una lotta per le necessità materiali senza le quali nessuna attività superiore e spirituale è possibile.

La storia recente dei sindacati offre un esempio di ciò che sto cercando di dimostrare. Questi hanno svolto una funzione effettiva finché la società occidentale è stata in grado di provvedere alle classi più basse l’illusione del benessere, mantenendo un tasso di disoccupazione sufficientemente basso da evitare qualsiasi lotta significativa all’interno della classe lavoratrice tra quelle che possiamo chiamare le sue “sottoclassi” o “microclassi”. L’ondata di neoliberismo inaugurato da Thatcherismo e Reaganomics e la crisi iniziata nel 2007 con la crisi dei subprime hanno messo sindacati e movimenti operai in ginocchio. L’ultimo passo di questo lungo processo è l’attacco sferrato dai colossi finanziari americani agli impianti socialisti delle Costituzioni europee impensabile fino a trent’anni fa. In una ricerca pubblicata nel 2013, la J P Morgan attacca i sistemi europei e la loro «protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori»[27]. La crisi ha dissolto le classi e condotto la lotta ad una nuova e più dura configurazione.

«La lotta di classe [...] è una lotta per le cose crude e materiali senza le quali non posso esistere quelle raffinate e spirituali». Benjamin cerca di liberare così la teoria marxista da ogni forma di sovra-intellettualizzazione, da ogni forma di universalizzazione che egli riconosce come base della contemplativa acedia. Non ci sono ideali finché non si provvede alla sopravvivenza essenziale dell’individuo. La sopravvivenza è primo motore immobile del cambiamento storico. Egli vuole dare una possibilità alle masse. Egli riconosce l’ambiguità di questo concetto che è un altro sottoprodotto del processo marxista di universalizzazione che taglia l’individuale dall’Ideale. Benjamin si spoglia della presunta onniscienza dell’intellettuale e si colloca al fianco dell’uomo comune. Egli siede nel mezzo della folla e non al di sopra di essa, come è consuetudine per molti teorici. Per lui il proletariato non è una massa informe da indottrinare, ma la diversificazione delle realtà umane che lo circondano con i loro profili e le loro specializzazioni. Egli non si lancia mai in astratte generalizzazioni. Per lui ogni esperienza umana è degna di attenzione per la sue peculiarità come contributo per l’edificazione della verità.

Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproduzione meccanica, egli guarda benevolmente al concetto di expertise che le tecnologie moderne hanno esteso. Come egli stesso afferma: «La tecnica del film, esattamente come la tecnica sportiva, implicano che chiunque assista alle prestazioni che esse rappresentano assume le vesti di un semispecialista. Basta aver sentito anche soltanto una volta un gruppo di giovani strilloni di giornali discutere, appoggiati alle loro biciclette, I risultati di una competizione ciclistica»[28].

Le nuove tecnologie hanno offerto ad un numero sempre maggiore di individui la possibilità di affermarsi secondo i loro propri talenti e competenze. Viene definitivamente mandata in pensione l’idea di qualsiasi verità. Con ciò Benjamin ridefinisce il ruolo dell’intera elite intellettuale, distruggendone il preteso possesso esclusivo o preferenziale di essa. Egli parte con il contraddire l’arroganza tipica dell’intellettuale con lo stesso processo di demistificazione che il materialista storico aveva attuato nei confronti dello storicismo e la sua apatica pietrificata idea di legge naturale. Scala così fino all’Empireo  per demolire addirittura i paradigmi delle discipline più riverite, come la letteratura. Proseguendo ne L’Opera d’Arte, egli afferma: «Il fenomeno cominciò quando la stampa quotidiana aprì ai lettori la propria rubrica delle “lettere al direttore”; oggi è ben difficile che ci sia un europeo partecipe del processo di produzione che non abbia per principio l’occasione di pubblicare da qualche parte un’esperienza di lavoro, una denuncia, un reportage e simili. Con questo la distinzione tra autore e pubblico è in procinto di perdere il suo carattere sostanziale […]. In quanto competente di qualcosa, poiché volente o nolente lo è nell’ambito di un processo lavorativo estremamente specializzato, se anche soltanto in quanto competente di una funzione irrisoria ha accesso alla schiera degli autori»[29].

Benjamin colora in sfumato. Disegna un chiaroscuro profondo della società. Non cade mai nella tentazione di generalizzare. Il concetto di classe, come quello di massa, è per lui un insoddisfacente contenitore vuoto in cui la complessità dell’esistenza umana non può essere contenuta. Da qui, ogni universalizzazione perde il pathos della realtà in nome dell’apatica acedia della teoria. Il proletariato per Benjamin è esattamente quel pathos (come rappresentazione delle possibilità delle classi inferiori della società) che manca a molti intellettuali. Le cose raffinate e spirituali, egli scrive, «si manifestano in questa lotta come coraggio, spirito, scaltrezza e forza d’animo»[30]. Questo è il motivo per cui egli vuole mettersi al fianco dei proletari. È un materialista storico che lotta per coloro che sono sfruttati. È questo un principio che Benjamin afferma con estrema forza. Per lui, la battaglia è combattuta sul campo delle emozioni e del sentire fisico.

In L’Autore come Produttore, egli celebra il «processo di scioglimento» attraverso cui «l’autorità dello scrivere non è più fondata su uno specifico processo di formazione ma in uno di tipo politecnico ed in questo modo diventa di pubblico dominio»[31]. Questa evoluzione esprime la sconfitta della coscienza superiore degli “uomini della mente”. L’intellettuale discende dall’Olimpo e diventa un produttore. Egli può sentire empatia  per qualcuno che finalmente riconosce come compagno. Il concetto di classe cambia così completamente. È esteso ad una complessa varietà di individui che possono trovarsi in varia maniera coinvolti nel processo produttivo. Questa è la ragione per la quale «attraverso l’esperienza della solidarietà al proletariato, l’autore come produttore esperisce [...] la propria solidarietà con altri produttori che fino a quel momento avevano rappresentato ben poco per lui»[32]. Nella sua discesa, egli riavvalora l’individualità. Egli riconosce l’importanza di coloro che lo circondano. Se per molti intellettuali, la Teoria è sempre monodirezionale (solitamente, dall’alto verso il basso), per Benjamin è multidirezionale. Il suo è un criticismo esoterico. Non vi è proselitismo. La parola chiave della sua teoria è “disvelare” come sottolinea Susann Buck-Morss[33]. Egli vuole che i proletari sviluppino talenti individuali e una coscienza positiva. Questa non può derivare da alcun processo di indottrinamento, ma emergere autonomamente dall’interno. Non cerca di trasformare i proletari in intellettuali, ma renderli consapevoli delle proprie possibilità individuali. Egli auspica che sviluppino le loro competenze peculiari. L’esempio della letteratura indica il percorso. Con la sua estensione all’uomo comune, essa «guadagna in larghezza ciò che perde in profondità»[34]. Quest’ultima non è più un valore supremo.

Questo universo di lettori-scrittori, in cui ognuno è chiamato a presentare la propria specializzazione, questo vuoto contenitore riempito con micro-cosmi differenziati in funzione di tendenze, questo spazio privo di regole in cui il concetto di verità si scioglie in una varietà di voci che parlano linguaggi profondamente differenti è oggi incarnato dall’universo del Blog. Discendente diretto di quell’apertura rappresentata dalla “lettera all’editore”, il Blog è l’arena in cui l’Autorialità è stata definitivamente sconfitta.

La parola Blog nasce da due contrazione successive. Nel 1997, Jorn Barger, un saggista americano che ha pubblicato numerosi scritti online su Joyce e l’intelligenza artificiale, tra gli altri temi, conia il termine Weblog per descrivere il processo di “logging the web”. Successivamente nel 1999, un altro giornalista online Peter Merholz riduce Weblog in Blog al fine di farlo entrare meglio nella barra laterale del suo sito.

Il moderno fenomeno del “blogging” si evolve dai primi diari e threads online degli anni ’90. I suoi precursori sono considerati una vasta gamma di comunità digitali come Usenet (un sistema di discussione in Internet diffuso a livello globale nel quale gli users potevano leggere e inviare messaggi inserendoli in una o più categorie, conosciuti come newsgroups), servizi commerciali online e mailinglist. Durante l’ultima decade del xx secolo, Internet forum software, come WebEx, crearono conversazioni aperte con “threads”, vale a dire connessioni tra argomenti similari tra messaggi inviati su metaforiche lavagne.

Il primogenitore del fenomeno Blog è tuttavia considerato Justin Hall che nel 1994 mentre era ancora uno studente allo Swarthmore College, inizia il proprio diario online dal titolo Justin’s Links from the Underground, che offriva uno dei primi tour guidati della storia del Web[35]. Quelli che potremmo chiamare paleo-bloggers erano principalmente scrittori, saggisti e giornalisti che portavano avanti diari online mettendo insieme i propri lavori.

I primi weblogs erano semplicemente liste di componenti aggiornate manualmente in siti comunitari. L’evoluzione di strumenti per semplificare la produzione e la manutenzione degli articoli pubblicati in ordine cronologico invertito rese il processo di pubblicazione accessibile a un pubblico molto più ampio e meno tecnico.

Le forme originali di “paleo-blog” si moltiplicarono scindendosi in varie categorie come, ad esempio, gli Angry bloggers (vale a dire, bloggers arrabbiati che discutevano in maniera polemica un’ampia varietà di argomenti), gli Emo bloggers (principalmente adolescenti della classe media che si lamentavano delle loro vite piccolo-borghesi) o gli Obsessive bloggers (un sottoinsieme di bloggers appassionatamente interessati ad un singolo argomento o area di argomenti e si spingevano alla ricerca di altri bloggers con interessi simili). Da queste categorie, molte altre categorie si sono originate. Ad esempio, gli Angry bloggers si sono trasformati in Political bloggers che si sono a loro volta evoluti in Activist bloggers. O ancora più interessante: dagli Obsessive bloggers sono evoluti diversi tipi di giornalisti ossessivi come gli High-tech bloggers, i Food bloggers, i Travel bloggers, gli Art&Design bloggers, i Fashion bloggers o i D.I.Y. Bloggers. Questo è esattamente il mondo di lettori/autori di cui parlava Benjamin. Quello dei Blog è precisamente quello spazio dove chiunque, secondo la propria esperienza, prende coscienza di se stesso e si mette in contatto con altri membri della comunità internautica che condividono la sua stessa passione. La coscienza non è imposta dall’alto. La coscienza non è una prerogativa intellettuale e non deve svilupparsi necessariamente secondo percorsi intellettualizzati. È una coscienza di gruppo che si organizza autonomamente intorno ad una nuova idea di consapevolezza. È questa una maniera per le masse di uscire dall’indistinzione. A ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo la propria passione potremmo dire. L’universo Blog apre nuove aree di conoscenza condivisa. Ciascuno può trovare il proprio posto in seno ad una comunità. La consapevolezza si differenzia e non è più appannaggio di un solo gruppo, inserita in un più ampio ambito di contestualizzazione. La differenza nella profondità dei contributi significa ben poco in confronto all’estensione della possibilità in quanto tale. In Internet, la supremazia della “mente” si scioglie. I pensieri sono condensati e diventano molto più prossimi alle emozioni. Si pensa che la prossima generazione di blogger sarà quella del micro-blogging: evoluto da Twitter, prende quello che un vecchio blogger avrebbe detto in 12.000 caratteri e lo condensa in 140 caratteri. È questa una più superficiale maniera di comunicare? Non necessariamente. È questa una nuova maniera di definire i parametri del sapere stesso? Definitivamente, sì. Gli “uomini della mente” sono costretti a riportare le loro conoscenze al livello delle conoscenze altrui. In questa nuova era, non esiste più alcuna superiorità della verità dal momento che questa è connessa con la sfera emotiva, con la concretezza della carne. Pathos, emozioni, irrazionalità pur sotto la guida della ragione riconquistano una nuova rilevanza. In questo concetto fluido di cultura e verità, la profezia benjaminiana sembra lentamente prendere forma: «la mente [...] deve scomparire. La mente che crede unicamente nella propria forza magica scomparirà»[36].

 

NOVEMBRE 2014



[1] W. Benjamin, Theses on the Philosophy of History, in Illuminations, Schocken Books, New York 1968, p. 256.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] B. Schlossman, The Orient of Style: Modernist Allegories of Conversion, Duke University Press, Durham 1991, p. 117.

[5] W. Benjamin, Theologico-Political Fragment, in Reflections, Schocken Press, New York 1986, pp. 312-313.

[6] W. Benjamin, Theses on the Philosophy of History, cit., p. 254.

[7] G. Lukács, Coscienza di classe, in Storia e Coscienza di Classe, Mondadori, Milano 1973, p.96.

[8] Ibidem, p.66.

[9] Ibidem, p.67.

[10] Ibidem, p. 85.

[11] Ibidem.

[12] G. Lukács, La reificazione e la coscienza del proletariato, in Storia e Coscienza di Classe, cit.

[13] Ibidem, p. 217.

[14] «Il proletario […] si presenta come puro e semplice oggetto dell'accadere storico (Es erscheint vorerst als reines und bloßes Objekt des gesellschaftlichen Geschehens)», Ibidem, p.218.

[15] È lo stesso Lukács alla fine del saggio a sostenere l’importanza dell’educazione in questo processo. Cfr. Ibidem, p.274.

[16] K. Marx, Salario, prezzo e profitto. Editori Riuniti, Roma 2006.

[17] Silesian Weavers’ Uprisings, in The Great Soviet Encyclopedia, 1979.

[18] G. Lukács, La reificazione e la coscienza del proletariato, cit., p.226.

[19] Ibidem, p. 228.

[20] G. Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., p.89.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem, p. 91.

[23] Cfr. T. Geiger, Interesse di classe e coscienza di classe, in Saggi sulla società industriale, utet, Torino 1970.

[24] V. I. Lenin, A Great Beginning, in Collected Works, Vol. 29, Progress Publishers, Moscow 1965, p 421.

[25] L. Robbins, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, London 1932, p.16.

[26] T. W. Adorno, Can One Live After Auschwitz?: A Philosophical Reader, University Press, Stanford 2003, p.98.

[27] «At the start of the crisis, it was generally assumed that the national legacy problems were economic in nature. But, as the crisis has evolved, it has become apparent that there are deep seated political problems in the periphery, which, in our view, need to change if emu is going to function properly in the long run. The political systems in the periphery were established in the aftermath of dictatorship, and were defined by that experience. Constitutions tend to show a strong socialist influence, reflecting the political strength that left wing parties gained after the defeat of fascism. Political systems around the periphery typically display several of the following features: weak executives; weak central states relative to regions; constitutional protection of labor rights; consensus building systems which foster political clientalism; and the right to protest if unwelcome changes are made to the political status quo. The shortcomings of this political legacy have been revealed by the crisis».

J. P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfway there, «Europe Economic Research», 28 May 2013.

[28] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.

[29] Ibidem.

[30] Walter Benjamin, Theses on the Philosophy of History, cit., p. 255.

[31] W. Benjamin, The Author as Producer, in Understanding Brecht, Verso, London-New york, 1998, p.90.

[32] Ibidem, p. 95.

[33] S. Buck-Morss, The Origin of Negative Dialectics. Theodor W. Adorno, Walter Benjamin and the Frankfurt Institute, The Free Press, New York 1977, p. 142.

[34] Ibidem, p. 90.

[35] R. Harmanci, Time to get a life - pioneer blogger Justin Hall bows out at 31, «San Francisco Chronicle», February 20, 2005.

[36] W Benjamin, The Author as Producer, cit., p.103.