DIARIO
		
		Pomigliano 22 Giugno 
		2010
		
		Giulio Trapanese
		
		A Pomigliano il 22 Giugno scorso c’era 
		tutto, tutto quello che significano politica, potere, resistenza oggi. 
		Ci sono momenti nella vita in cui la realtà si dischiude più 
		chiaramente, e il resto delle cose sembra finalmente così semplice da 
		capire, come se la verità fosse alla portata della coscienza di tutti i 
		giorni. A Pomigliano c’era lo scontro fra lavoratori e capitale, la 
		repressione in armi dello Stato con i carabinieri, la vecchia, la più 
		vecchia ancora, e la nuova politica, la società dello spettacolo, i 
		giornali, i giornalisti, le telecamere, le guardie di sicurezza 
		all’entrata della fabbrica, 
		
		All’arrivo non troviamo nessun operaio, 
		se non i nostri militanti. É quasi il momento del cambio turno intorno 
		alle 13:00. C’è una tensione fortissima, e quello che immaginavo lo 
		ritrovo ancora più chiaro, una volta arrivato. Non è un momento di lotta 
		qualsiasi. Nel ritmo della politica di oggi è così difficile distinguere 
		quali siano gli eventi determinanti, perché ogni giorno il futuro 
		travalica l’appena passato. Ma quel giorno a Pomigliano si avverte: la 
		politica, l’organizzazione economica nazionale, il sistema, evidente o 
		nascosto, del mantenimento del potere stabilito, sta guardando in 
		qualche modo a Pomigliano. Forse non tutto, forse non davvero i piani 
		più alti, quelli più alti del livello a cui anche noi che facciamo 
		politica riusciamo a guardare; quei piani, infatti, davvero forse sono 
		già oltre, hanno più chiara la situazione e si stanno riorganizzando con 
		una velocità assai superiore alla nostra. Però una parte è rimasta 
		ancora legata agli avvenimenti classici della lotta e della formazione 
		della coscienza politica. Marchionne è lì, il capitalismo modello Fiat è 
		lì, la produzione industriale residua in Italia anche, come sono lì, 
		almeno in parte, i sindacati e il loro destino di organizzatori della 
		lotta o di concertatori ammaestrati del capitale, nell’epoca del suo 
		dominio totale sulla sfera della vita. Quel giorno si rivela come un 
		giorno vero - almeno per quello che può significare in un’epoca in cui 
		il vero è sempre macchiato della superficie della velocità degli eventi 
		e della loro rappresentazione mediatica, e la gestione dell’economia e 
		della politica avviene ad una distanza siderale dalla percezione e dalla 
		comprensione delle masse. La società dello spettacolo, anche, è presente 
		a Pomigliano, non fosse altro per il fatto che c’è la politica, e questa 
		oggi è fondamentalmente politica dello spettacolo.
		Quando arriviamo fuori la fabbrica, 
		troviamo i lavoratori precari licenziati dall’azienda qualche settimana 
		prima, li incontriamo ad una certa distanza, con uno loro striscione, a 
		reclamare il sì al referendum, a chiedere a «quelli di dentro» di 
		salvare tutti, salvare anche loro. Il fuori della vita di fabbrica grida 
		al suo dentro di essere ascoltato e di riessere trascinato all’interno, 
		di tornare a lavorare, che qualunque condizione, non è un problema, che 
		il lavoro vale più di tutto il resto, perché senza lavoro tutto il resto 
		non c’è comunque. La struttura carceraria della fabbrica con i suoi 
		ingressi blindati e il suo perimetro recintato ha così, anch’esso, il 
		dentro e il fuori, dove ci sono i protagonisti della giornata, gli 
		esclusi di sempre; e gli esclusi della giornata, come i lavoratori 
		licenziati, che continuano ad essere fuori, stavolta insieme ai 
		giornalisti ben lieti di riprenderli. Giornalisti abituati ad accedere 
		agevolmente in ogni luogo dove lo spettacolo è quello del potere, ma che 
		in fabbrica, il 22 Giugno, col referendum, certo non possono entrare. 
		Poi ancora, andando avanti, incontriamo i militanti politici, 
		quelli più stanchi, e quelli più freschi. In generale un pulviscolo 
		abbastanza confuso di piccoli gruppi, con le loro idee di sempre e di 
		mai, volto attuale del comunismo dai mille volti che la storia continua 
		a consegnarci a vent’anni dalla caduta del muro. La normalità, anche 
		c’è. E la si incontra appena, entrati, nello piazzale antistante la 
		fabbrica. Come sempre, anche in ogni situazione eccezionale la normalità 
		della vita di sempre non si arresta. Il caldo è soffocante; solo dopo 
		una mezz’ora di attesa diminuisce grazie all’arrivo delle nuvole; nel 
		mentre, ancora, la ricerca d’acqua, i militanti dei gruppi all’ombra 
		sotto il cornicione del passaggio della vecchia metropolitana, i 
		venditori di cibo, e quello, più in vista, di vari oggetti e 
		cianfrusaglie, che tutti conoscono e che guadagna forse addirittura più 
		del primo.
		Poi cominciano ad arrivare i lavoratori 
		dal parcheggio del cambio turno. Comincia la disposizione a squadra per 
		i volantinaggi, si alza l’attenzione e la tensione, i carabinieri si 
		avvicinano con un paio di camionette ai cancelli da un lato, i militanti 
		dei vari gruppi cominciano a vagare, io, insieme con qualcun altro, ci 
		posizioniamo all’esterno ad attendere quelli che arriveranno dal 
		parcheggio laterale. Sembra quasi una partita, con quelli che rimangono 
		appostati sotto i cancelli quasi come sfondamento, e chi lavora sulle 
		ali, chi, ancora, invece in difesa, retroguardia, chi, infine, fa il 
		libero e la spola e distribuisce i volantini quando finiscono. Più 
		avanti a dove ci troviamo io e un’altra compagna, ci sono due donne dei
		cobas, ma sono talmente 
		avanti fin quasi dentro il parcheggio che non riesco a vederle 
		inizialmente, si camuffano tra la folla, a volte più folta, altre più 
		rada. Quelli che arrivano da noi hanno così già un volantino in mano, ed 
		ogni volta bisogna precisare che è diverso da quello che hanno già, ma 
		anche che è lo stesso di quello della compagna che mi è di fianco. 
		Dietro di noi poi ci sono dei giornalisti, che provano ad arpionare i 
		lavoratori in entrata chiedendogli cosa voteranno, e provano ad 
		avvicinarsi ai lavoratori come camaleonti, esordendo con frasi dirette e 
		quanto più popolari riescono a costruirle. Mi ricordo d’uno che ad alta 
		voce, con fare alla mano, si avvicina e gli chiede:
		«Allora, come va?» I 
		lavoratori si trovano abbastanza straniti di tutto quello. La mia 
		percezione è che ogni giorno per anni si saranno avvicinati ai cancelli 
		soli e già stanchi con il pensiero delle loro ore di lavoro, e quelle 
		del dopo lavoro di prima e di dopo, magari riflettendo sul fine 
		settimana appena trascorso e su quello ancora da trascorrere. Saranno 
		entrati in fabbrica attraversando quello spiazzale vuoto, magari 
		all’alba, deserto, con solo il venditore di cianfrusaglie e gli altri 
		colleghi, in mezzo alla radura, nel parcheggio infinito di auto dei 
		dipendenti. Quel giorno, invece, l’intero mondo era lì, e cercava di 
		parlare con loro, o meglio di costringerli a parlare, di penetrare nelle 
		loro convinzioni, e si mostrava loro alla mano, cordiale con 
		l’affettazione dell’ipocrisia di chi può utilizzare diversi registri di 
		linguaggio a seconda delle occasioni, e prova a mettersi a livello per 
		estorcere la simpatia. Alcuni di loro corrono veloci, scappano, mentre 
		qualcuno si ferma, e dice quello che ha in mente sulla vicenda; qualcun 
		altro si ferma pure, ma vedo nel suo sguardo che non ha voglia di dire 
		proprio nulla. C’è chi ripete meccanicamente le frasi sentite sui 
		giornali sull’importanza dell’investimento e la necessità di votare sì, 
		chi ha delle convinzioni più personali ma che portano alle stesse 
		conclusioni. Ci sono delle operaie, in particolare, che della loro 
		insicurezza hanno fatto uno schermo sorridente e convinto delle ragioni 
		dell’azienda. Parlano della loro questione come se parlassero in terza 
		persona, non si rendono, forse, ancora perfettamente conto. Si vedono 
		già in televisione. «Noi i turni di notte li abbiamo fatti, non ci spaventa» sostiene 
		un’operaia. «Vogliamo lavorare, il 
		resto non ci interessa». «È un 
		periodo critico, e ci adeguiamo». Molti sguardi sono verso terra, il 
		camminare di altri invece vorrebbe mantenersi normale, come fosse un 
		giorno come tutti gli altri, e il solo evitare i vari ostacoli di 
		militanti e giornalisti gli impedisce di non accorgersi di nulla. Tutto 
		quella tensione, in un modo o nell’altro, è un elemento diverso che 
		infastidisce. Come se un giorno così importante, la fabbrica 
		appartenesse ancora meno a loro di quanto non fosse già ogni giorno. È 
		difficile parlare con loro, per noi, per i giornalisti, per chiunque. 
		Riuscire a superare la ritrosia di molti e la battute di qualcuno. Forse 
		quelli che parlano sono proprio i più deboli. E di questi molti sparano 
		delle cose a caso, senza convinzione né logica, del tipo «Perché 
		vogliamo lavorare? Perché siamo lavoratori». Ed io e M., la compagna che 
		mi è a fianco, ci giriamo e ci guardiamo interdetti. A lei scappa la 
		battuta, che operai senza coscienza sono a volte peggio dei padroni. E 
		questo, in una società massificata, dove il controllo sociale è 
		millimetricamente pianificato, è vero. È vero, come è vero che questi 
		operai non si riconoscono nel loro lavoro come poteva essere per i loro 
		nonni o i loro padri. La loro vita è sradicata nel suo centro da ciò che 
		fanno ogni giorno per otto ore. Quello che hanno non è un lavoro, ma un 
		posto di lavoro che gli permette di vivere fuori, ma di per sé non ha un 
		grande significato. La lunga parabola del capitalismo arriva qui, alla 
		completa distruzione del rapporto di appartenenza del singolo lavoratore 
		con i suoi strumenti e la sua produzione quotidiana, con i luoghi, i 
		tempi, molto spesso, anche i compagni, della propria attività. C., un 
		operaio delegato sindacale, in un’intervista a fine turno dirà, infatti:
		«Io non sono orgoglioso del mio 
		lavoro, come non sono orgoglioso di essere in Fiat. All’inizio forse lo 
		sono stato, ma ormai da tempo non lo sono più. E come potrei esserlo?» 
		E come potrebbero esserlo, infatti? Come potremmo esserlo anche noi, 
		quando il lavoro che si svolge ha ormai una finalità sociale veramente 
		aleatoria, spesso incomprensibile, e incomprensibile perché inesistente? 
		Un lavoro sganciato da una finalità sociale, e un lavoro che scarseggia 
		su tutti i fronti. Le ultime statistiche ci dicono che solo il 6% dei 
		nuovi neolaureati entra con un contratto a tempo indeterminato – il che 
		tra l’altro in tempi di crisi non è certo una garanzia assoluta di 
		continuità. Il resto, continua a sperare prima o poi di ottenerlo, ma in 
		effetti oramai il lavoro unico per tutta la vita è un miraggio per la 
		maggior parte.
		Ma in tutto questo contesto, il quadro 
		della precarietà, e d’una gioventù nuova senza slancio, sicurezza e 
		speranza, che in fabbrica si riflette nell’età media di 23 anni, a 
		Pomigliano non c’è né rassegnazione né esaltazione. Questo è il ricordo 
		per me più bello di quel giorno. 
		Tra i volti di chi usciva dal turno, o chi stava per entrare, nel 
		modo di rispondere alle interviste, nel modo di prendere in silenzio un 
		volantino, c’era una grande dignità 
		nel portare su di sé una sofferenza che non si esprima per forza 
		a gesti o parole. Una sofferenza che si porta e basta, con cui provare 
		ad andare avanti comunque, senza piegarti, pur sapendo di stare, forse, 
		perdendo in ogni caso. In quegli sguardi di operai, come sulla sua 
		stessa terra, c’era davvero il senso della figura della ginestra 
		descritta da Leopardi. «Pomigliano 
		non si piega» portano scritto alcuni operai in lotta sulle loro 
		maglie. Gli operai non si piegano alla storia tracimata del capitalismo 
		post fordista degli ultimi anni, come la ginestra di fronte alla forza 
		senza tempo della natura del vulcano. Anche se alla fine si capitolerà, 
		se i meccanismi del capitalismo internazionale ancora una volta avranno 
		la meglio sui diritti e sulla resistenza della mobilitazione degli 
		operai, resistere è necessario, rivendicare un’altra idea di uomo è la 
		vera posta in gioco, perché senza dignità non si è più uomini, le forme 
		di compensazione d’orgoglio o d’appartenenza possono essere lasciate a 
		margine, a chi se ne sente ancora legato o crede che siano un sostegno 
		alla propria lotta. A Pomigliano si lotta per il diritto ad esistere. Si 
		può anche perdere, e noi tutti in Italia stiamo perdendo da trent’anni, 
		ma si deve provare fino in fondo, comunque.
		Quei giorni di fine Giugno, così, sono 
		stati davvero particolari per Napoli. Pomigliano, lo sciopero della
		cgil del 25 con i 
		riflettori sullo spezzone FIOM, e poi il 26 il Gay Pride nazionale per 
		le strade del centro. Si è trattato di modi diversi di lottare, ma 
		soprattutto qualità e forme diverse di resistenza su cui riflettere, 
		approfondire, capire meglio. A Pomigliano c’è poco orgoglio per una 
		presunta identità operaia.  
		Come ho scritto, qualcuno dice di esserlo stato all’inizio, ma ormai è 
		passato del tempo, per tutti è difficile riconoscersi in quello che si 
		fa e nel modo in cui lo si fa, l’etica del lavoro è terminata lì dove il 
		lavoro la sua etica l’ha perso da almeno vent’anni. C’è dignità, nella 
		comprensione che si sta perdendo, perché tutti sono contro, il clima 
		generale nel paese è triste, appesantito, oscuro. Ma c’è modo e modo di 
		perdere e di subire un ricatto. 
		Quando ci spostiamo più sotto i 
		cancelli, i lavoratori in entrata sono oramai praticamente finiti. Si 
		aspetta quelli che stanno per uscire. I giornalisti si preparano ad una 
		nuova tabella di domande su come è il clima dentro, su come sono andate 
		le votazioni, su cosa hanno votato. Sembra un po’ un clima da exit poll. 
		I giornalisti tornano alla carica, con 
		le domande con chi è rimasto fuori alla fabbrica. Sembra sia ormai tutto 
		finito. Anche il secondo turno è entrato, gli operai voteranno, la sera 
		stessa comincerà lo spoglio, non c’è più nessuno da convincere. Nessuno 
		più a cui dare un volantino 
		Ma in questo inizio di dismissione, vedo 
		un capannello. E mi ci ficco dentro. Attorno intanto osservo un’operaia 
		della Fiat uscita dal primo turno, appena intervistata, d’accordo a 
		votare Sì che si scaglia contro un sindacalista
		cobas, che riesce a 
		riconoscere solo dopo qualche battuta.
		«Che sindacalista è?» –
		cobas – e lei:
		«Sono io che sto dalla parte degli 
		operai» e teatralmente se ne va. È realtà, anche se ha dei tratti da 
		fiction per l’immediatezza e la prontezza inusuali. Il capannello si 
		infittisce, e per il fatto d’essermici fiondato dentro per primo, vedo 
		tutta la scena. Sono a fianco del giornalista di Repubblica che 
		intervista C. e R. operai delegati, usciti adesso dal turno. Si parla 
		del clima che c’è dentro. Ai lavoratori chiamati a lavorare per finta in 
		un periodo di cassa integrazione, è stato proiettato un video in cui si 
		spiegavano i nuovi investimenti della Fiat e il progetto comune che 
		l’azienda vuole condividere con i lavoratori. Il direttore dello 
		stabilimento Garofalo compariva nel filmato facendo esplicito 
		riferimento al referendum di quel giorno. Garofalo, il responsabile del 
		personale, altri dirigenti erano al confine della stanza del voto, ad 
		osservare attentamente gli operai che affluivano a votare. C’è chi ha 
		avuto le sue pacche sulle spalle, chi i suoi sguardi ammonitori. Il 
		sistema del Panopticon si chiudeva così fino al momento dell’urna, dove 
		sotto lo sguardo dei capi si votava il proprio destino di vita. I 
		giornalisti chiedono, ascoltano, C. e R. mi colpiscono moltissimo nel 
		modo in cui argomentano. La lotta, l’applicazione all’organizzazione 
		politica della tua resistenza ti rendono diverso. C. mi è di fronte, ha 
		le braccia conserte, ha una voce e un modo di esprimersi saldo ma non 
		sfacciato, attento a quello che gli viene chiesto, ma anche a non 
		concedere nulla a chi ha di fronte che dopo le prime domande 
		accattivanti torna alla carica, con quelle sulla questione 
		dell’assenteismo degli operai in fabbrica, sugli altri sindacati che, 
		invece, al contrario della fiom hanno firmato, sulla stessa
		cgil che tentenna, sul quadro nazionale, l’importanza 
		dell’investimento in tempo di crisi da parte dell’azienda. Le risposte 
		sono pronte, nette. Preparate. In quei momenti, ancora di più, ho visto 
		tutto. Tutto quello che in dieci anni di politica attiva e di studio 
		avrò pensato e letto mille volte, ma che era lì, nella sua semplicità. 
		La rappresentazione mediatica della realtà completamente astratta dalla 
		realtà vera della vita, la contrapposizione di interessi di parti che 
		dispongono di un potere diverso in partenza nel loro contrapporsi, il 
		significato della parola ideologia in tutto la sua accezione negativa, 
		la vacuità delle parole della carta stampata di discorsi senza 
		fondamento e i suoi interessi materiali, la corruzione del piano 
		sindacale, il legame fusivo fra gli apparati dominanti. Ad un certo 
		punto si inserisce un esponente di Rifondazione S. che chiede alla 
		giornalista Ansa di scrivere però tutto quello che gli viene detto e non 
		solo una parte, come al solita. La giornalista risponde inviperita, ed 
		S. dalla posizione di forza alle spalle degli operai torna a quella di 
		insicurezza di sempre dopo la risposta feroce che nessuno può dire ad 
		una giornalista cosa scrivere e non scrivere. Gli operai mediano, lo 
		stesso C. è sempre quello al centro della scena. Chiede di andare 
		avanti, aggiungendo però che i giornalisti di tutta la vicenda hanno 
		dato una visione distorta, ampliando anche a dismisura il corteo ad 
		esempio del Sabato precedente pro Fiat a Pomigliano centro. C. ha una 
		figura statuaria, è giovane, ha trentacinque anni, è un ragazzo che 
		forse non sarà neanche sposato, che ha le chiavi dell’auto legate con un 
		laccetto al collo. Se l’avessi incontrato in un locale di sera a 
		Pomigliano non m’avrebbe dato forse quest’impressione, anzi forse avrei 
		trovato la rigidità del suo corpo eccessiva, m’avrebbe allontanato. Lì 
		fuori in quel contesto, però anche la rigidità del suo corpo era una 
		parte della sua energia, di quella superiorità di determinazione che 
		sposta i discorsi e il favore da una parte all’altra. In un intervento 
		ad un’assemblea pubblica qualche settimana dopo, C. ha detto che 
		quest’esperienza l’ha fatto invecchiare presto. E anche per me in quel 
		capannello l’impressione è che il tempo scorresse più veloce, che la 
		comprensione delle cose avvenisse ad un ritmo accelerato, che esperienze 
		di anni, sarebbero potute essere sintetizzate in pochi battute. – Ma 
		allora è proprio così? Il potere ha questa capacità di mobilitazione 
		capillare delle sue forze? L’opinione pubblica può essere spostata così 
		a piacimento attraverso la comunicazione di massa? La coalizione di 
		potere economico, politico, mafioso, poliziesco, giornalistico, 
		culturale può avvenire in modo così forte e senza crepe? Sì, è così. Non 
		servono spiegazioni, lo vedi di fronte e basta. Conosci la storia di 
		quegli operai, di quella fabbrica. E poi vedi di fronte l’arroganza, la 
		disumanità, la menzogna. Pensi in grande all’Italia per come è arrivata 
		ad essere oggi. E capisci da che parte stare. Non c’è bisogno d’altro. 
		Se c’è bisogno d’altra teoria, di altre spiegazioni, che qualcuno ti dia 
		ancora un volantino o ti chiami per convincerti con una discussione, 
		vuol dire che l’essenziale per un essere umano, la sua sensibilità di 
		saper scegliere la parte dello sviluppo dignitoso della vita, non c’è 
		più, è andato perso, distrutto. A quel punto i volantini e i libri non 
		basteranno mai. 
		
		Quando ce ne andiamo, 
		il capannello di giornalisti, delegati, politici e semplici 
		operai si è sciolto in piccoli gruppi più piccoli che tendono a 
		sciogliersi a loro volta. Di ritorno, in auto, mi ritrovo a fianco Loris 
		Campetti, parliamo un po’. Tutti, in verità, siamo convinti che 
		l’accerchiamento vincerà comunque, che i Sì saranno ampiamente 
		maggioritari, che la resistenza ci sarà, ma sarà insufficiente. Che 
		Il continuo della storia, poi, va oltre 
		i limiti della pagina di diario di quel 22 Giugno a Pomigliano fuori la 
		fabbrica. Una pagina sulla politica e la vita oggi. 
		
		GIUGNO 2010