PAURA O DESIDERIO - Prefazione al libro L'officina delle migrazioni. Movimenti migratori e totalizzazione capitalistica di Vincenzo Fiano

Alessandro D'Aloia

 

Viviamo tempi neri. Dall’Europa all’America crescono muri di cemento come prove tangibili, pietrificazioni, degli steccati mentali di una società sempre più de-territorializzata, tanto dalla propria ‘terra’ quanto dai riferimenti ideologici, che fino a qualche lustro fa ‘territorializzavano’ chiaramente la politica. Lo spaesamento che ne deriva è una condizione, che su piani opposti, accomuna i due lati dello steccato, il lato in esodo e quello che cerca di ri-territorializzarsi sul feticcio dell’identità. Lasciando al testo de L’officina delle migrazioni. Movimenti migratori e totalizzazione capitalista, l’approfondimento sul grande tema del flusso de-territorializzato par excellence del capitalismo: quello migratorio; vorrei qui focalizzare invece l’attenzione sul flusso di de-territorializzazione della politica, che coinvolge il lato ‘occidentale’ dello steccato. Qui regna ormai un clima da quotidiano sdoganamento del fascio[1] con una destra dichiarata che svolge un compito di provocazione permanente ed una destra non dichiarata, a volte riconoscibile sotto il vessillo del “non sono né di destra né di sinistra”[2] altre volte ben nascosta sotto astrusi dispositivi di legge da essa prodotti in continuazione, e in cui l’unica figura in grado di sfondare a sinistra la politica sempre più spesso è, incredibilmente, il Papa. Deve essere successo qualcosa di grosso dall’ottantanove in poi se la politica, intesa come mestiere, ha deciso di abbandonare i propri canovacci collaudati in decenni di lotta parlamentare per gettarsi a corpo morto nell’improvvisazione sistematica. Il clima che si respira è dominato dalle fobie. La paura sta avanzando irresistibilmente e le (in)coscienze si stanno polarizzando in senso paranoide. Ecco perciò il disperato bisogno di ri-territorializzarsi su qualcosa di apparentemente definito come l’identità.

Questa coscienza paranoide si struttura internazionalmente secondo almeno tre livelli distinti ma correlati, in cui i livelli superiori sono supportati da quelli inferiori.

Al livello sovrastante, il terzo, troviamo il più putrefatto tra tutti i frutti della post-modernità. L’istinto di morte organizzato, per l’occasione e del tutto incidentalmente, sotto le vesti del fondamentalismo islamico. La più assurda delle teorie freudiane materializzata in squadroni neri che rivendicano qualsiasi follia messa in atto dalla disperazione globalizzata. Chi avrebbe potuto mai immaginare un’epoca capace di produrre una sinergia mortifera tra Freud e il Corano sotto forma di individui barbuti vestiti di nero? E senza con questo voler insinuare nessun male intrinseco né in Freud e tantomeno nel Corano. Si tratta di un regime del terrore alla sua massima espressione, quasi ideale, iperuranico, sublimato. Come altro definire un terrore fine a se stesso, non-funzionale, che antepone la distruzione alla repressione, che aspira all’affermazione simbolica di sé piuttosto che ad un dominio organizzato. Questo terrore nero pre-statale (e pre-natale), nel tentativo di territorializzarsi, organizzato perciò in anticipo rispetto ad un proprio Stato e probabilmente in mancanza di una qualsiasi possibilità di statualizzazione, è un’innovazione notevole tutta post-moderna. Precedentemente il terrore (fascista) era covato sempre nel grembo di un ordine statale. Va detto però che anche questa seconda forma, più familiare, rivive fulgidamente, in questi tempi neri, ad esempio, nella patria della seconda Roma.

La messa in scena del golpe, nell’estate 2016, grazie al quale Erdogan oggi incrimina il dissenso interno, è un bizantinismo della società dello spettacolo appariscente almeno quanto l’omertà internazionale delle potenze ‘democratiche’ tutte, ‘civilmente’, allineate sull’opportunità di non condannare apertamente quello che è sotto gli occhi di tutti. Fare finta di credere al finto golpe per poter far finta di non credere a quello vero. Me se la Turchia è l’esempio della paura concentrata, quella di stato verso le proprie opposizioni interne è pure vero che questo tipo di esperienza è ancora un po’ al di là delle nostre percezioni più immediate.

C’è, tuttavia, un ulteriore livello di azione dell’istinto paranoide che ci avvolge già interamente come una sabbia mobile fatta di una paura diffusa che striscia nelle pieghe di quelle società, tra cui la nostra, che non sperimentano né fascismi di stato, né guerre, almeno fino a quando queste continueranno ad essere in grado di esternalizzare la destabilizzazione politica. Questo primo livello di inconscio paranoide, primo perché basamentale, fondante, è il problema con cui si confronta oggi l’Occidente ed è, a ben vedere, il più subdolo, perché non dichiarato, criptico, inconscio, e, cosa più preoccupante, con dimensioni di massa. Esso cresce nel de-pensamento della politica nostrana, si alimenta come ricordava Umberto Eco in uno dei suoi cinque scritti morali, precisamente quello intitolato Fascismo eterno, con le schegge sparse delle ideologie infrante, prendendo di volta in volta il pezzo che torna più utile al momento, in un’inquietante mosaico di tutto con il suo contrario. Il vessillo di questa dimensione sociale della paura (che si potrebbe definire di incubazione fascista) non è il terrore armato con le sue bombe, né la censura statale delle libertà democratiche con le sue prigioni, il suo emblema è il muro, la demarcazione, la striatura razziale, in un’epoca in cui l’identità è già sostanzialmente svanita tanto nella sua dimensione individuale quanto in quella collettiva. Il muro non è un segno come un altro, non si tratta qui di intenzioni, di proclami, di provocazioni verbali. Un muro va costruito, perciò progettato ed eseguito. Con questo segno materiale, inciso sul corpo della terra, l’uomo (se questo è un uomo) parla alla storia, come per i campi di concentramento e di sterminio. I muri si fanno segni architettonici, rendendo inequivocabile quale sia la lingua dei fatti.

Il muro, come nuovo valore sul quale si ri-territorializza finalmente la politica, genera, anche se incidentalmente, scenari in cui si rapprende la miseria di un’epoca. È così che le frontiere, paradossali in un mondo di flussi, diventano vere e proprie distopie realizzate.

Come altro definire le immagini che ogni tanto sfuggono al loro oblio quotidiano per giungere sino a noi dalle frontiere delle rotte balcaniche, ad esempio, oppure dal Mediterraneo al largo di Lampedusa? Come definire il pugno allo stomaco della nostra coscienza proveniente dalla spiaggia di Bodrum in Turchia nel settembre del 2015, con il corpo del piccolo Aylan esamine? Quale mostruosa dissociazione emotiva permette di pensare come cose separate la costruzione di muri, visibili e non, e la morte che siamo riusciti a concentrare lungo i confini dei nostri giardini paranoici, giusto appena fuori dal nostro sguardo? Solo un istinto in preda al terrore può generare l’accanimento che monta sempre più contro i deboli. E dal momento che l’istinto governato dalla paura si avvita in vigliaccheria, scopriamo la profonda viltà del nostro progresso, timoroso degli ultimi della terra che implorano misericordia.

Mentre l’intelligenza artificiale progredisce sempre più e la tecnologia rende sempre più prossima la soglia dell’impossibile, l’intelligenza umana sembra regredire, sconvolta da conflitti di carattere confessionale, etnico, nazionale. È un paradosso stridente, anche questo tutto post-moderno.

La politica dei muri è il paradosso di oggi in un’epoca percettivamente illusa che la contraddizione tra capitale e lavoro si risolva in quella più immediata tra l’io e l’altro. La tragica illusione che l’altro alberghi certamente al di fuori dell’io fonda un noi strutturalmente, e fragilmente, basato sull’esclusivo porsi contro il diverso, vale a dire su un atteggiamento tutto proiettato all’esclusione assiomatica dell’idea che dall’esterno possa provenire invece un qualche bene. Ma si dimentica che è proprio l’altro il terreno di scontro nella contraddizione tra paura e desiderio.

La situazione qui brevemente tratteggiata era inimmaginabile già soltanto nel primo decennio degli anni del XXI secolo, epoca in cui veniva scritto il libro che offriamo ai lettori.

In questa accelerazione degenerativa della storia, nel nostro piccolo, consigliamo la lettura di questo testo, che è invece un relitto d’altri tempi, una sorta di archeologia mentale lucidissima e insopportabilmente inattuale. È stato scritto un’era fa, nel 2009, come tesi di laurea. È stato anche già parzialmente pubblicato, con articoli stralciati, sul nostro sito (anch’esso ormai sotto strati di tempo sempre più spessi). Ed infine sta diventando antico, nel senso proprio di inconcepibile (sempre di più, nell’epoca del de-pensamento politico), prima ancora di offrirsi come possibilità di comprensione di questo momento storico, che ha tra le sue particolarità la rinuncia a qualsivoglia volontà di capire e di capirsi. Questo libro è illegibile. Ed è proprio così che deve essere, dal momento che le cose vanno come detto.

Proprio per questo è ora di pubblicarlo, perché un libro non parla necessariamente al presente, soprattutto se questo è appassionato dalla paura e perché se la ragione, quale strumento del pensiero, non è ancora il viatico del desiderio essa è pur sempre il principale antidoto per le fobie. E sarà illuminante capire in che modo i flussi di persone in movimento siano un fenomeno connaturato al capitalismo in quanto tale, più che nelle precedenti epoche, e a maggior ragione in una fase di globalizzazione del capitalismo, il quale saturando progressivamente le geografie terrestri, accompagna a questo movimento estensivo un movimento intensivo, in profondità, conformando a sua immagine la totalità dei rapporti sociali. Questo libro lega il fenomeno delle migrazioni alle sue cause profonde, facendoci comprendere l’irrealizzabilità di qualsiasi idea che, astraendo dalla natura estremamente dinamica degli equilibri socio-economici a livello planetario, si spinga a prefigurare non soltanto impossibili soluzioni definitive circa il problema dei migranti ma persino scenari, completamente al di fuori dalla realtà, di interi stati al riparo dai pericoli della mescolanza e perciò purificati dalle diversità. Siamo noi i diversi da noi stessi.

Ma prima di entrare un po’ più nel merito delle questioni messe a tema dal testo che qui introduciamo, è necessario accennare al rapporto che questo scritto intesse, richiamandola anche nel proprio sottotitolo, con un’altra fondamentale e sconosciuta opera dei nostri tempi: La teoria della totalizzazione[3] di Rino Malinconico. Quest’ultimo titolo è una sorta di summa, in tre tomi, del pensiero marxista di fine Novecento e, se vogliamo, ancora più inaccessibile per il veloce lettore contemporaneo, non fosse altro che per la sua voluminosità. Tuttavia è proprio lì, tra le righe della Teoria della totalizzazione, che bisogna cercare l’approdo della ricerca cui il testo di Vincenzo Fiano potrebbe rimandare. Ed è anche per questo motivo che, a parere di chi scrive, è necessario pubblicare questo libro, il quale se non può considerarsi un compendio dell’opera di Malinconico può aprire più di qualche sentiero verso di essa. Si tratta dell’applicazione della teoria generale ad un fuoco particolare, quello delle migrazioni, che per tanto conferisce piena autonomia al libro di Fiano rispetto a quella del ‘maestro’ Malinconico.

D’altra parte il rimando ad altre opere è anche il metodo con il quale muove il testo di Fiano, il quale analizza la questione delle migrazioni a partire da differenti pensatori che più o meno direttamente hanno trattato l’argomento. Vengono analizzati testi di Lenin, della coppia Negri Hardt, di Marx. Questo al fine di definire il contesto concettuale dal quale poi emergono le acquisizioni sul fenomeno delle migrazioni inquadrabili nella teoria della totalizzazione, da intendere, quest’ultima, come fase estrema del capitalismo, susseguente a quella imperialistica di leniniana definizione e, in qualche modo, come spiegazione evolutiva del fenomeno ‘capitalismo’ alternativa alla teoria negriana sull’impero. Si tratta dunque di inserirsi in una precisa corrente di pensiero, ma facendo i conti con questa tradizione. La cosa interessante infatti sta nel modo di rapportarsi ai principali testi dei pensatori menzionati, mediante l’analisi di ciò che in essi appare contraddittorio e che può meglio essere compreso alla luce della teoria della totalizzazione. Ad esempio la questione riguardo la capacità del capitalismo di ulteriori sviluppi oltre la fase imperialistica, impossibile dal punto di vista di Lenin eppure in essere, oppure la visione ‘positivista’ in Negri/Hardt circa la moltitudine quale soggetto, piuttosto che oggetto, della storia. Questione alla quale risulta legata anche la visione circa l’operatività o meno della teoria del valore nelle attuali condizioni di produzione. Rispetto a questo punto se la posizione di Negri/Hardt assume intuitivamente e genericamente come ‘eccedente’ il valore che la moltitudine è in grado di produrre rispetto ai limite artificiale del mercato capitalista, nella teoria della totalizzazione si specifica meglio quest’eccedenza produttiva in relazione all’evoluzione tecnologica (il capitale morto), la quale costituisce un termine del rapporto con il lavoro vivo che finisce per svalutare progressivamente quest’ultimo, costituendo il principale problema dell’epoca attuale, in cui l’eccedenza creativa della moltitudine, per altri versi un bene, si trasforma in eccedenza di forza lavoro negli angusti argini del mercato. La questione della tecnologia è fondamentale nella teoria della totalizzazione. È infatti proprio focalizzando sugli sviluppi ineguali del capitale a livello internazionale, inteso come differente livello di progresso tecnologico incorporato dai diversi sistemi-paese, dai diversi stati, che si può meglio inquadrare la dinamica delle migrazioni, determinata da una polarizzazione tra centro e periferia dei processi di globalizzazione. Risultano a tale scopo fondamentali concetti quali: lo scambio diseguale; lo spreco di uomini assoluto e relativo; e la fenomenologia della totalizzazione, svolta nel IV capitolo, come storicizzata in cinque fasi. Dal punto di vista concettuale la lettura di questo testo apre certamente una serie di orizzonti (anche speculativi) che, seppure inseriti in una precisa tradizione di pensiero, della quale si presume aprioristicamente esaurita la portata, offrono sviluppi potenziali del tutto inediti, che necessitano di essere approfonditi ed applicati alla lettura della realtà che viviamo.

 

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[1] Franco Berardi detto Bifo, lettera di dimissioni dall’Advisory Panel di DiEM25, ne Il carteggio tra Bifo e Varoufakis sullo stato dell’Europa.

https://diem25.org/il-carteggio-tra-bifo-e-varoufakis-sullo-stato-delleuropa/

[2] Wu Ming, Appunti diseguali sulla frase «Né destra, né sinistra».

https://www.wumingfoundation.com/giap/2012/01/appunti-diseguali-sulla-frase-%C2%ABne-destra-ne-sinistra%C2%BB/

[3] Rino Malinconico, Teoria della totalizzazione. Il capitalismo oggi, la sua forza e le sue debolezze, il suo possibile superamento. Edizioni Melagrana, San Felice a Castello (CE) 2012.

 

APRILE 2014

 

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