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02
Ottobre 2010

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SPUNTI PER UN DIBATTITO SULLE RELAZIONI SINDACALI IN TEMPO DI CRISI

Antonello Baldassarre

 

1. Quando a farsi sentire è sempre la voce dello stesso padrone.

É un dato di difficile contestazione, anche perché ampiamente verificato e descritto in numerosi studi e ricerche sul tema[1],  l’influenza da sempre esercitata da Fiat Auto verso i processi di evoluzione delle relazioni industriali nel nostro Paese. Che si tratti della vertenza di Pomigliano oggi o della «marcia dei quarantamila» ieri – e proprio di questa l’ottobre prossimo ricorrerà un importante anniversario, il trentennale di quei duri trentacinque giorni di scioperi e blocchi conclusi con la protesta dei capi-reparto il 14 ottobre 1980 – la fabbrica di automobili torinese, sempre più «multinazionalizzata» grazie al patto di ferro stretto dal Lingotto con i fratelli d’oltreoceano della Chrysler, ha costantemente dettato i tempi di sviluppo e di trasformazione del nostro sistema sindacale: di un sistema sindacale, cioè, fortemente plasmato, nei suoi tratti di identità, dall’industria automobilistica e dalle grandi imprese dell’Italia settentrionale o, meglio, di quello un tempo chiamato il «triangolo industriale».

Dopo la marcia dei quarantamila quadri Fiat che sfilarono con le loro giacche, cravatte e soprabiti per le vie di Torino sotto la guida di Luigi Arisio, e con la benedizione di Gianni Agnelli e dell’allora amministratore delegato Cesare Romiti, si scrisse che nulla sarebbe stato più come prima: la protesta ordinata di una maggioranza sino a quel momento silenziosa, con la fine dei picchetti ai cancelli di Mirafiori e la pesante sconfitta del fronte sindacale, giungeva improvvisa per annunciare che un’epoca volgeva al declino e che, dopo le lotte del ’68 e le conquiste degli anni ’70, il decennio successivo si sarebbe svegliato col disincanto di una classe che finiva di essere tale e si preparava a disperdersi nei mille rivoli di un mondo del lavoro orfano della grande impresa taylor-fordista.    

Oggi i giudizi non sono molto diversi nella sostanza, quando ci si interroga su quali effetti un accordo come quello siglato per lo stabilimento «Giambattista Vico» di Pomigliano potrebbe spiegare sull’assetto delle regole che presiedono ai rapporti tra gli attori collettivi e all’impiego degli strumenti con cui le parti sociali disciplinano i termini di scambio tra capitale e lavoro. Per contestare l’intesa, definita addirittura un diktat padronale d’altri tempi, un regolamento aziendale goffamente camuffato con la veste di un patto negoziale, è stata chiamata in causa la Costituzione e si è lamentato l’attacco inferto al significato racchiuso nel suo art. 40, che là dove riconosce un diritto di sciopero ne sottrae la regolazione dell’esercizio a fonti diverse dalla legge. Su opposti fronti, si è sostenuta la necessità di superare una letteratura che, dall’ambito di efficacia delle c.d. clausole di «tregua sindacale», ha sempre escluso effetti di vincolatività per i singoli lavoratori, così liberi e nel diritto di scioperare anche in dissenso con il proprio sindacato e senza il rischio di conseguenze sanzionatorie sul piano del rapporto di lavoro. Volendo andare oltre lo scontro tra i massimi sistemi, si è detto che tanto nel metodo quanto nei contenuti, l’accordo di Pomigliano sembra adombrare una sola certezza, ossia quella dell’avvento di un profondo cambiamento delle relazioni sindacali[2]. E non a caso, trascorsa l’estate, non si è fatto poi attendere molto l’annuncio, da parte di Federmeccanica, della volontà di recedere dal contratto collettivo nazionale firmato nel 2008 e aderente ad un sistema contrattuale oggi ritenuto superato: questo passo, foriero di incognite e chiaramente orientato a perseguire obiettivi di rottura rispetto al passato, è stato compiuto dall’organizzazione delle imprese meccaniche proprio in vista dell’apertura di una fase di trattative volta a recepire, in una intesa con i soli sindacati disponibili, le novità regolative pensate per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco e quelle, più generali, delineate nel gennaio 2009 dall’accordo-quadro per la modifica del modello contrattuale: accordo, si ricorda, sottoscritto senza la partecipazione della Cgil, sindacato maggioritario nel settore metalmeccanico – e non solo – eppure oggigiorno sempre più incapace di sottrarsi, anche a causa di alcune sue anime oltranziste, ad operazioni di labour exclusion e di indebolimento dell’unitarietà d’azione sindacale portate avanti dalle politiche economiche e del lavoro del governo di centro-destra.

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2.Grazie Signora Thatcher per averci insegnato che la politica non si limita a fare il tifo.

E veniamo così al quadro politico. É indubbio che questo, e le scelte di valore che ispirano i suoi agenti, rappresentano, al pari del protagonismo di alcune imprese, fattori di condizionamento di relazioni che, con l’accresciuta complessità del lavoro e delle problematiche ad esso legate, intrattengono con i poteri pubblici un confronto costante: al punto che di queste relazioni le forze politiche divengono soggetti interessati ed indispensabili al pari delle forze di rappresentanza del lavoro e delle imprese. Che il potere pubblico non è semplice osservatore esterno, mediatore o arbitro di ciò che si muove e si scontra nell’arena del conflitto di lavoro, ma attore a tutti gli effetti delle relazioni industriali, lo sanno bene i minatori inglesi, i cui scioperi nulla poterono contro una volontà politica che nel corso degli anni ’80 piegherà il più antico e forte sindacato del mondo occidentale destrutturandolo in «casa propria», ossia in quel sistema di garanzie messo in piedi, come ci ha spiegato in non dimenticate pagine Sir Otto Kahn-Freund[3], dopo anni di glorioso e rivendicato «laissez-faire».

Così, se volgiamo lo sguardo a quel che accade negli ultimi tempi in casa nostra, ci accorgiamo che le politiche di promozione dell’azione sindacale di tutela – il cui più importante portato normativo è tuttora rappresentato, nonostante gli acciacchi del tempo, dalla l. 20 maggio 1970, n. 300 (meglio nota come Statuto dei diritti dei lavoratori) – e la intensa stagione di concertazione delle politiche sociali, dei redditi, del lavoro – sfociata nel Protocollo Giugni del luglio 1993 – hanno lasciato il campo, sul finire degli anni ’90, ad orientamenti ed indirizzi che paiono risentire di un riscoperto approccio liberista o neo-liberista alle questioni sindacali e del lavoro. Basta scorrere le pagine del «Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia», presentato nell’ottobre 2001, o del più recente «Libro bianco sul futuro del modello sociale», per farsi un’idea delle linee programmatiche che in questi anni hanno ispirato le forze governative del centro-destra nei rapporti con le organizzazioni di rappresentanza degli interessi di lavoro.

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3. Le relazioni sindacali alle prese con il «dono sociale» del conservatorismo compassionevole: la (ri)scoperta della bilateralità.

Tra i tanti aspetti che colpiscono dei documenti politico-programmatici appena richiamati, spicca con particolare evidenza la visione di sindacato e, più in generale, di autonomia collettiva sempre più costruita attorno alla centralità di una figura in passato a dir poco negletta – e comunque per nulla approfondita, salvo pochissime eccezioni, negli studi giuridici in materia[4]  – in cui oggi il legislatore sembra voler individuare l’alfa e l’omega di un nuovo corso delle relazioni industriali. Stiamo parlando del c.d. «ente bilaterale», elevato dall’art. 2, lett. h), d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, a «sede privilegiata di regolazione del mercato del lavoro» e nel cui sostegno il «Libro verde sul futuro del modello sociale» – presentato dal Ministero del lavoro nel luglio 2008 per promuovere un dibattito pubblico sul futuro del sistema di welfare attraverso il coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionali, sociali e professionali – individua una delle «soluzioni più autorevoli e credibili per avviare una alleanza tra imprese e lavoratori sui temi della crescita, dello sviluppo e della giustizia sociale». La bilateralità, insomma, come metodo di gestione di tutti quei profili dei rapporti di lavoro che la contrattazione collettiva affida alla cura di organismi comuni e procedure congiunte, in cui rappresentanti dei lavoratori e delle imprese operano su presupposti di co-interessenza anziché di interazione dialettica se non addirittura di insanabile alterità, è diventata il simbolo di una concezione nuova, o meglio di quella visione delle relazioni sindacali e di lavoro fortemente incentrata sui valori della collaborazione e dell’integrazione tra le forze in campo.

Non ha probabilmente molto senso richiamare qui quei filoni di pensiero che, nel solco della dottrina sociale cattolica, hanno proposto da sempre una trasposizione del monologo di Menenio Agrippa alle tematiche del lavoro, nel tentativo di dimostrare che ciascuna parte è indispensabile alla sana costituzione e funzionamento del tutto, e che è dalla leale partecipazione di ciascuna parte a questo tutto, e non dalla lotta tra le parti, che discende il bene per un organismo intimamente unitario come può essere una comunità di lavoro o, più in generale, l’economia di un paese. Eppure, è un sindacato come la Cisl, da sempre tributario per alcune sue componenti culturali al pensiero sociale della Chiesa, ad essere un convinto promotore del ruolo degli enti bilaterali così come assertore della necessità di favorire, su un piano differente ossia endo-aziendale ma pur sempre collegato al primo, forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Allo stesso modo, non avrebbe senso, quando si discorre di enti bilaterali, paventare rischi di un ritorno a politiche sindacali nostalgiche della soluzione corporativa che nel ventennio fascista coartava le forze del capitale e del lavoro ad una artificiosa ed insana collaborazione, in vista del perseguimento dell’interesse superiore dell’economia nazionale, che non poteva non vedere partecipi, in un destino di condivisione, imprese e lavoratori. Eppure, da quell’esperienza, l’attuale operazione di sponsorship legislativa degli enti bilaterali sembra ripetere, dimentica della portata di una norma come quella racchiusa nell’art. 39, 1°co., Cost., intenti di istituzionalizzazione, o, come è stato detto, di «moderata istituzionalizzazione» di organismi sindacali[5]. Il riferimento è a quelle disposizioni che, se non richiamano la tessera di partito o l’iscrizione obbligatoria al sindacato, sembrano tuttavia superare la logica di sussidiarietà sino ad oggi sottesa ai meccanismi di riconoscimento di provvidenze pubbliche al lavoro, rendendo l’intervento integrativo di risorse private requisito necessario. E così, ad esempio, come dispone l’art. 7-ter, co. 9, l. n. 33/2009, gli enti bilaterali sono stati trasformati in soggetti indispensabili ai fini dell’attivazione di procedure amministrative inerenti alla erogazione di misure di sostegno al reddito dei lavoratori coinvolti in vicende di crisi occupazionale. É evidente come qui siamo in presenza di norme che, ad una prima interpretazione, e pur non volendo sfiorare le complesse questioni che vi sono sottese proprio con riguardo ai profili di tutela della libertà sindacale negativa, conducono al grave esito secondo cui se l’organismo bilaterale non esiste (perché non costituito) oppure c’è, ma le parti del rapporto di lavoro non intendono aderirvi per il tramite delle rispettive associazioni di rappresentanza, il lavoratore coinvolto in una vicenda di crisi aziendale non avrà diritto al c. d. «ammortizzatore sociale».

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4. Quando anche il sindacato comprende che è meglio evitare di fare la fine dei dinosauri.   

Ad ogni modo, il tema della «partecipazione» nelle relazioni industriali è stato fatto passare, negli ultimi tempi, come un argomento di urgente attualità: eppure, al pari delle ragioni sostenute dai fautori della «conflittualità», si rivela un topos ad alto tasso ideologico, ancorché sempre più spesso sbandierato nei dibattiti pubblici come antidoto contro la politicizzazione dell’azione sindacale. Volendo tentare una lettura non unilaterale, che tenga conto cioè dei molteplici punti di vista e soprattutto delle prassi collettive affermatesi nelle più recenti vicende evolutive, può partirsi dalla constatazione che negli accordi collettivi si rinvengono con crescente frequenza dichiarazioni del seguente tenore: «le parti si riconoscono nel consolidato modello partecipativo di relazioni industriali, improntato nell’ambito degli organismi bilaterali su un dialogo continuo e finalizzato a creare un clima positivo di consenso per la ricerca di soluzioni condivise»[6]; «alla autonomia collettiva si riconosce una funzione primaria per la gestione delle relazioni di lavoro mediante lo sviluppo del metodo partecipativo, ai diversi livelli e con diversi strumenti, e un ruolo essenziale nella prevenzione del conflitto»[7]; «l’esperienza della bilateralità esprime la cultura della partecipazione negoziata nelle relazioni tra le parti, per continuare a dare risposte innovative al comparto per quanto riguarda la crescita competitiva delle imprese e il miglioramento dell’occupabilità dei lavoratori»[8].

Questo sintetico catalogo è sin troppo chiaro nel dirci che al giorno d’oggi sono le stesse parti sociali a non credere più nel conflitto come «padre di tutte le cose nell’universo delle relazioni industriali»[9] e che, al contrario, è dall’interno del mondo sindacale, con i suoi umori e malumori in perenne instabilità, che inizia a percepirsi come indispensabile tentare una articolazione degli strumenti di tutela collettiva che tenga conto della diversità dei contesti, della specialità dei rapporti di lavoro, delle mutate esigenze e dei profondi cambiamenti culturali intervenuti nelle nuove generazioni di lavoratori, a proposito dei quali non è forse esagerato dire che se dovessero incrociare il sindacato per strada e qualcuno glielo facesse notare, esclamerebbero: «scusate, ma non lo abbiamo riconosciuto».

Nuovi orizzonti, allora, si iniziano ad intravedere, sia pure all’esito di un cammino che non è stato breve, né, soprattutto, facile.

Già sul finire degli anni ’70 – anni che si lasciavano alle spalle un stagione storica caratterizzata da un forte «protagonismo delle organizzazioni sindacali e del metodo di regolazione delle relazioni d’impresa fondato sul binomio conflitto/contratto»[10]  – la discussione sul ruolo svolto, nella società italiana, dal sindacato e dai risultati delle lotte sociali sino a quel momento raggiunti, partiva dal sentore «dei problemi che oggi si pongono, al termine di una fase di sviluppo e di espansione quasi ininterrottamente protrattasi per un lungo periodo, ad un diritto del lavoro ormai percorso da «crepe profonde» (licenziamenti collettivi, ristrutturazioni, scorpori produttivi, proliferazione del «lavoro nero», formazione di strati di classe operaia sottoccupata e «non protetta»)»[11].

Nel corso degli anni ’80, è lo spirare del «vento neoliberista», si dirà, a compromettere, sul piano della disciplina del lavoro, se non la centralità del sindacato e delle sue classiche forme di tutela, il carattere di esclusività del metodo rivendicativo e conflittuale. Questo, infatti, verrà affiancato da prassi regolative di stampo «concertativo», più rispondenti, rispetto all’azione negoziale di segno contrappositivo, all’esigenza di consentire al sindacato di reggere il passo delle trasformazioni dell’impresa taylor-fordista e di proporsi, così, come «agente di riregolazione»[12] nell’ambito di una organizzazione del lavoro caratterizzata: a) dal rafforzamento di canali di comunicazione diretta tra risorse umane e management, pronto a scavalcare, nei processi di riconversione industriale e flessibilizzazione dei rapporti produttivi, i tradizionali centri di mediazione sindacale; b) dal bisogno di cooperazione attiva del lavoratore ad obiettivi di flessibilità e di produttività aziendale; c) in sintesi, da «elementi che favoriscono formule partecipative, anziché disgiuntive, di amministrazione dei rapporti di lavoro»[13].

Gli anni ’90, poi, e il loro prosieguo, sino ad arrivare ai nostri giorni, assistono al consolidarsi delle vicende di destrutturazione dei paradigmi sui quali si è costruito, lungo un intero secolo, il diritto del lavoro del Novecento e, con esso, tutte «le istituzioni più caratterizzanti che davano voce, nelle diverse esperienze ed espressioni del mondo capitalistico, alla centralità del sistema industriale»[14]. E così, se il sindacato, quale agente (di organizzazione) del conflitto – e del contratto, «che postula il conflitto e lo chiude, ma solo per rilanciarlo da nuove basi»[15]  – è soprattutto figlio della reazione al «progressivo diffondersi di quella particolare forma di organizzazione economica che va sotto il nome di «grande industria»»[16], il declino in Italia e in Europa di questo modello di esercizio dell’iniziativa economica, sia nella sfera privata sia in quella pubblica, ha lanciato all’attore collettivo nuove sfide: come quella del confronto con l’importanza che va assumendo la c.d. «via partecipativa», a fronte della necessità di abbandonare «una cultura puramente conflittuale e contrattuale fortemente intrisa dei connotati storici del lavoro industriale»[17].

É pertanto sotto gli occhi di tutti un soggetto sindacale che da sé cambia pelle: in parte perché spinto da eventi che negli ultimi decenni hanno fatto registrare in tutta Europa un abbassamento significativo dei tassi di membership, con conseguente indebolimento della funzione di rappresentanza del mondo del lavoro, in parte perché chiamato dalle imprese a condividere quei processi di riconversione industriale e aggiornamento tecnologico imposti da una economia sempre più globalizzata e che dalla competizione al ribasso tra mercati dei prodotti e del lavoro fa discendere l’alternativa secca rinnovamento o delocalizzazione: del resto, i sindacati sanno bene quanto sia vera l’affermazione che le imprese quando votano, votano con le gambe.

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5. Perché occorre riempire la partecipazione di significati concreti.

Siamo ad una svolta? Sicuramente sì, e di portata tale che trascende la singolarità di episodi come quelli legati al referendum sottoposto ai lavoratori di Pomigliano o al caldo autunno sindacale che attende il nostro Paese e, a quanto pare, i suoi giudici, che, tra strappi contrattuali, diffide ad adempiere e ricorsi in giudizio, vengono sempre più investiti di questioni che per loro natura poco si prestano ad essere risolte in un’aula di tribunale, essendo al fondo, nelle rispettive cause di insorgenza, legate a ragioni politico-sindacali più che giuridiche.

Ad ogni modo, per tornare su parole attorno a cui, sia pur a volte tra le righe, si è voluta svolgere questa riflessione, e sulle quali sembra vogliano costruirsi, da parte degli opposti fronti che si contendono, due modelli di azione sindacale tra loro ben distinti e concorrenti, vien da dire che la «partecipazione», così come il «conflitto», non sono panacee, ma formule che sinteticamente descrivono sfere di comportamenti reciprocamente complementari: entrambe assimilate, sia pur con approcci diversi e con diversi gradi di resistenza al cambiamento, dalle culture sindacali del nostro Paese, ed entrambe contemplate nella Costituzione della Repubblica per una costruzione della tutela del lavoro che possa fare affidamento su una pluralità di risorse. É paradossale, allora, che le tematiche partecipative, al pari di quelle del conflitto, vengano, così di frequente negli ultimi tempi, impiegate come fumosi abracadabra, se non, peggio, come clave per screditare l’azione dell’avversario di turno e non ci si impegni, invece, a ricondurle entro coordinate che, definendo soggetti, comportamenti e responsabilità, delineino spazi di tutela concreti e percepibili. Se vi è, o meglio vi è stata una affezione dei lavoratori allo sciopero e all’azione conflittuale, è perché le lotte del lavoro sono state vissute, da chi le ha svolte in veste di protagonista o rimanendo nelle seconde file, come esercizio di un diritto autentico, da cui sono discese garanzie e tutele concrete e, sia pur in congiunture economiche particolari, un reale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della gente comune. Ma quid nella partecipazione, quale diritto, quali garanzie e tutele, perché i lavoratori in carne ed ossa vi si affezionino? Basta la proliferazione di enti bilaterali, del cui processo formativo e decisionale i lavoratori nulla sanno, come sempre meno sanno dei sindacati a cui, volontariamente o meno, si trovano iscritti? Basta partecipare ad un referendum a Pomigliano o in qualche altra impresa in ristrutturazione, dove il quesito sembra essere sempre lo stesso: «cosa scegliete, sacrifici o disoccupazione?». E infine, nell’era del capitalismo finanziario e volatile, così attratto da pratiche di falsificazione dei bilanci e da rocambolesche operazioni di investimento virtuale, che senso ha proporre ai lavoratori le più strane forme di partecipazione azionaria o agli utili delle imprese in cui lavorano, se le stanze dei bottoni in cui operano manager lautamente pagati non diventano luoghi dalle pareti di vetro?         

 

 SETTEMBRE 2010

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[1] Cfr., in particolare, G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat, 1919-1979, Bologna, 1998; Id., L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento, Bologna, 2001.

[2] V. C. Dell’Aringa, Molte ipotesi per il dopo Pomigliano, una sola certezza: cambieranno le relazioni industriali, in Il diario del lavoro, 14 luglio 2010, consultabile al sito www.ildiariodellavoro.it/inchiesteedibattiti

[3] Cfr. il suo Il lavoro e la legge, trad. it. a cura di G. Zangari, Milano, 1974.

[4] V., al riguardo, la monografia di L. Bellardi, Istituzioni bilaterali e contrattazione collettiva. Il settore edile (1945-1988), Milano, 1989.

[5] Cfr. L. Mariucci, Gli enti bilaterali: mercato del lavoro e rappresentanza sindacale, in Lavoro e diritto, 2003, n. 2, p. 163 ss.

[6] Ccnl per gli addetti all’industria chimica e farmaceutica 18 dicembre 2009, consultabile al sito www.portalecnel.it

[7] Ccnl per gli addetti all’industria metalmeccanica privata 20 gennaio 2008, consultabile al sito www.portalecnel.it

[8] Ipotesi di accordo per il settore artigiano 21 maggio 2008, consultabile al sito www.portalecnel.it.

[9] V. O. Kahn-Freund, I conflitti tra i gruppi e la loro composizione, in Politica sindacale, 1960, p. 9 ss.

[10] M. D’Antona, Partecipazione, codeterminazione, contrattazione (temi per un diritto sindacale possibile), in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1992, n. 1, qui in B. Caruso, S. Sciarra (a cura di), Opere, II, p. 313 ss.

[11] G. Ghezzi, «Democrazia industriale» e governo democratico dell’economia, in Democrazia e diritto, 1977, p. 131.

[12] M. Regini, Confini mobili. La costruzione dell’economia fra politica e società, Bologna, 1991

[13] Cfr. ancora M. D’Antona, cit., 314 ss.

[14] M. Pedrazzoli, Partecipazione, costituzione economica e art. 46 della Costituzione. Chiose e distinzioni sul declino di un’idea, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2005, n. 1, p. 428 ss.

[15] G. F. Mancini, Costituzione e movimento operaio, Bologna, 1976, p. 10

[16] L. Riva Sanseverino, Associazione sindacale, in Novissimo digesto italiano, I, tomo II, Torino, 1958, p. 1442

[17] U. Carabelli, Le r.s.a. dopo il referendum, tra vincoli comunitari e prospettive di partecipazione, in Diritto delle relazioni industriali, 1996, n. 1, p. 25 ss.