LE NOCI DI CAMPAGNA
Daniele Guarino
Sono stato in campagna, l’altro giorno,
dopo una settimana infernale a Roma, in città. Fra le attese spasmodiche
dell’università e del lavoro, gli appuntamenti presi e persi, i tempi
inseguiti, a volte raggiunti, a volte no, ma in ogni caso persi nel loro
senso reale.
Sono andato con la speranza di staccare
– come si dice – dal ritmo delle cose di tutti i giorni e di nessun
giorno, con l’idea di pensare nella distanza, all’inizio di alcuni
giorni di festa. L’occasione è stata la proposta della raccolta delle
noci, che in questo periodo si fa nelle campagne di piccoli e grandi,
veri e finti contadini.
Volevo silenzio, e un tempo di viaggio,
per sentire di lasciarmi alle spalle l’insensatezza dell’organizzazione
sociale che si diffonde oltre la troppo debole resistenza delle nostre
vite.
Sono arrivato presto lì, con un amico.
Il cielo e gli odori erano diversi, gli alberi inizialmente piccoli,
quasi insignificanti, ma poi piano piano immensi quando cominci ad
esserci sotto, e a lavorarci entrando nel loro spazio e il loro mondo.
Siamo saliti, ci siamo arrampicati, abbiamo parlato, scherzato, ma
sicuramente meno di quello che mi sarei aspettato, rivedendo le persone
di quel casolare, che ho lasciato e ritrovato più volte negli ultimi
anni. C’era una certa diffidenza, la diffidenza del ritorno in posti in
cui siamo stati e con persone con cui siamo stati, da cui abbiamo preso,
abbiamo dato, e poi, in ogni caso, lasciato, e lasciandoli, un po’
comunque sempre traditi.
Ma la verità è che non avevo voglia di
parlare, non avevo voglia di convincere, di entrare nei discorsi degli
altri, con le domande di chi ama le risposte prima di conoscerle. Io non
l’ho fatto con loro, loro non l’hanno fatto con me.
D’altra parte, sono questi i tempi in
cui viviamo, e non è la prima volta che capita in questi mesi,
fare viaggi, andare verso gli altri, e non avvertire nei miei
confronti il vero desiderio di un ospite atteso che viene lì da lontano.
Le noci si staccavano facilmente, ma più
le raccogli, e più si moltiplicano, perché è come se gli occhi si
abituassero a poco a poco a vederle e riconoscere, entrassero
gradualmente nella prospettiva delle noci e dei loro colori fra il
marrone e il giallo. Il loro sapore era amarissimo, ma, a detta del mio
amico, si intuiva la bontà di quando sarebbero state secche.
Arrampicati sugli alberi, parlavamo. Ma
c’erano più silenzi che parole, un certo imbarazzo.
Le prime parole formali, le seconde,
subito dopo, ricalcavano discorsi dei media degli ultimi due, tre
giorni. Nel casolare di campagna dove siamo andati per la raccolta
vivono alcune persone che per scelta, ad un certo punto della vita,
hanno abbandonato la vita in città e si sono trasferiti. Mossi da un
atteggiamento critico, se non ipercritico, hanno radicalizzato le loro
scelte, e se sono andati. Da Firenze, dall’accademia, dal sistema di
potere che organizza il sapere e la cultura, dalla politica praticata e
non, dalla violenza e dall’esclusione della città. Se ne sono andati, e
sono alcuni anni, già, che vivono lì. Lontani, e – dal loro punto di
vista – fuori dal centro, estranei in potenza al condizionamento, più
liberi, sinceri, spontanei e nella condizione di poter scegliere le loro
attività, continuare i loro studi, porsi domande e sviluppare un
pensiero critico.
I discorsi sugli alberi, mentre il cielo
vedeva andare e venire le nuvole, erano discorsi dei media.
Mentre salivamo, scuotevamo gli alberi
per far cadere le noci sulle reti depositate apposta lì sotto, odoravamo
odori buoni e cattivi della campagna. Non appena si usciva dal personale
o dal formale, o, a volte, anche quando c’eravamo ancora dentro, i
discorsi nostri erano composti di frasi fatte dai media per gli ultimi
avvenimenti politici. C’erano i discorsi sulle ultime di Berlusconi e la
sua sessualità, gli idiomi delle pubblicità, le ultime novità
tecnologiche, il paragone delle persone conosciute con quelle della
televisione, la concezione della politica critica con quella del Tg1, ma
esattamente succube a quella, nella selezione dei fatti, del senso della
cronaca, delle tracce attraverso cui leggere la vita e il presente.
Eravamo in campagna, lontano da tutti.
La casa, infatti, si trova in una piccola frazione d’un paese già
piccolo, ma a sua volta separata dalla frazione stessa, ad un certo
punto d’una salita. Non ci sono piazze vere e proprie nell’arco di
diversi chilometri, grandi aggregati di case, di giornalai, uno
senz’altro in paese, ma non più di quello ( in ogni caso in casa
giornali non ce n’erano), non ci sono d’altra parte, né molte vetrine né
troppe pubblicità. Nell’intera cascina, con diversi appartamenti, e più
piani, di televisione ce n’è appena una, poi c’è internet con cui
riescono a connettersi, anche se con qualche piccolo inconveniente con
delle chiavette con scheda sim.
La politica non c’è in quella strada. I
politici non s’interessano di loro, che sono talmente pochi, né
particolarmente interessati, i testimoni di Geova non passano, non si
sentono auto, ogni tanto solo qualche autoambulanza, non c’è citofono,
non c’è bucato steso fuori. Non c’è riunione di condominio, non ci sono
vicini di casa. C’è la terra, eppure anche quella non sembra essere
confinata, sembra non ci siano veri limiti.
Chissà come il postino arriva.
Eppure la distanza è una strana
distanza. Le loro parole sono leggere e tenere come quelle
dell’incoscienza e non dell’esperienza. La terra li tiene a contatto con
il ciclo della natura, le stagioni, il caldo, il freddo, la vita e la
morte degli animali con cui vivono, con la difficoltà dei trasporti, con
la neve o il troppo caldo, con la terra che frana e alberi che cadono.
Non ci sono ascensori, scale mobili, metropolitane, e scale d’emergenza.
Non ci sono autobus, non ci sono strisce pedonali, non ci sono
ripetitori radio a distanza ravvicinata.
Ma nessuno di loro, può dirsi vero
nipote dei contadini d’una volta, e figlio della campagna. Non perché
sono cittadini trapiantati. Ma perché non c’è
nessun autentico innesto possibile. Si tratta di terreni diversi
solo nel guscio esteriore dei rumori della vita e del senso
dell’apparenza dei vestiti e dei tempi veloci. Cose essenziali, ma che
non sono alla stregua delle differenze di prima.
Le differenze che chi dalla campagna si
muoveva in città, notava, cercava e lasciava entrare e modificare i suoi
usi, le sue parole, le sue abitudini, i suoi oggetti. La distanza del
tempo, dello spazio, le differenze dei discorsi, l’universo di senso e
il rapporto sincero con le cose. Tutto questo non è più diverso. Né il
potere abita di meno il loro camino rispetto ai riscaldamenti degli
impianti degli appartamenti del centro della città. La televisione ha la
stessa voce, internet ha le stesse immagini, la radio le stesse musiche,
e – in definitiva – le stesse frequenze per i canali. Cercano anch’essi
l’ultimo tipo di cellulare e di televisione, le luci particolari per il
loro arredo, auto poderose. La loro cultura è quella di internet e del
social network. Le loro relazioni si basano sull’onnipotenza astratta
del cellulare
Ma soprattutto parlano anche loro, anzi
soprattutto loro, la lingua del potere di oggi. Assumono come naturali
elementi che, se volessimo osservare davvero, non traggono mai dalla
loro esperienza naturale, non basano sulla loro storia di persone, o da
quella dei loro genitori, della loro famiglia, dei racconti, veri o
falsi, dei loro nonni. La provincia della società odierna è diventata
più città della città. È più dentro di qualunque centro commerciale
cittadino, che è più all’avanguardia nello sviluppo della società
capitalistica di oggi, ma che offre, tuttavia, più incontri, più
esperienza, paradossalmente più distanza dall’elemento puro di questa
stessa società. La lingua di Berlusconi, della televisione, il
semplicismo del ceto politico, la loro ipocrisia senza ormai più
vergogna, si basa sui centri di potere dei palazzi dei capoluoghi di
provincia. Ma - ancora di più - è quella delle terre senza più
tradizioni e resistenze di periferie solitarie.
Dei ragazzi e delle ragazze affidati alla nuova cultura
dell’opinione e della tecnica, dell’immagine e della psicologia senza
contenuto. Del lavoro che non c’è, e del senso della vita deformato
sempre a quello del guadagno.
La solitudine della campagna d’oggi, e
della periferia come concetto lato, è quella della televisione sempre
accesa, di Sky e delle partite e dei commenti di calcio ad ogni ora,
delle scommesse e dei canali per ogni tipo, gusto e specialismo
possibile. È la vita separata dal mondo e sempre esposta al mondo,
dell’assenza di cultura che sia alta o bassa, di slancio autonomo, di
indipendenza. Senza memoria, senza valori, senza differenze.
Le città davvero non hanno da almeno
trent’anni più nessun egemonia sulle campagna. Con la distruzione della
separazione tradizionale di cultura alta e bassa, i nuovi anchorman sono
gli ultimi provinciali alla ribalta del successo del loro – e
immediatamente del nostro – senso comune.
Dal punto di vista storico è con la fine del periodo del fordismo
che si chiude l’idea della rivoluzione delle città, e dei lavoratori più
avanzati alla testa delle campagne.
Il potere adesso non abita in città e i
suoi sudditi più fedeli in campagna. Il potere adesso è dovunque, vive
al di là dello spazio. Le sue gerarchie sono spostate e continuamente si
spostano. I suoi sudditi
sono, anch’essi, dovunque, e fra loro le differenze sostanziali non
sussistono più. Come ebbe a dire Pasolini, già quarant’anni fa, questo è
l’autentico livellamento sociale garantito dalla società della merce.
Non c’è più il problema di avanguardia e direzione, di cultura di èlite
e di popolo. Ogni cultura è semplicemente sradicata dal luogo e dal
senso che l’ha generata e la costituisce. Il meccanismo è attivo
permanentemente dall’alto – o meglio anzi – dall’interno come la trama
di senso continuamente rinnovata dell’agire. La vita della massima
astrazione - il valore degli
oggetti, delle merci e dei suoi derivati, dei mezzi di comunicazione – è
molto più concreta d’ogni esistenza umana. Noi viviamo già da tempo in
un sistema totale, articolatissimo nelle sue strutture e rapidissimo nei
suoi mezzi, che definire semplicemente regime non è sufficiente, perché
si rischia di accostarlo a modelli in qualche modo simili, ma di un
mondo e un tempo che ormai non esistono più.
SETTEMBRE 2010