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09
Gennaio 2013

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SE LA DEMOCRAZIA È QUELLA AMERICANA

Redazione

 

Quel che è importante rilevare è che la democrazia non determina ad Atene un «governo popolare»,

ma una guida del «regime popolare» da parte di quella non piccola porzione dei «ricchi» e dei «signori» che accettano il sistema.

(Luciano Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia. Laterza, 2010, pag. 42).

 

Da più di 2000 anni lo spettro della democrazia si aggira per l’Europa, eppure non è dato vederne, ancora oggi, il corpo. In suo nome si sono fatte rivoluzioni e guerre, ma il più evoluto risultato di questi millenni di storia, il più evoluto in quanto ultimo in ordine temporale, è una macchina celibe[1] che sta ottenendo il risultato storico di alienare completamente il corpo elettorale dalla partecipazione politica, fosse anche solo la partecipazione richiesta per recarsi materialmente a votare. Tutto il palinsesto politico che quotidianamente, senza tregua, irrompe nell’esistenza delle persone, non vale più neanche una croce grafitica, per circa metà della popolazione italiana, tanto per restare ai fatti di casa.

Vale la pena dannarsi l’anima per una democrazia che produce e permette tutto ciò che abbiamo davanti agli occhi? Democrazia, questo termine antico, possiede un significato capace di travalicare l’idea che ognuno si fa di essa? Parrebbe proprio di no, per questo si insinua l’ipotesi che, come Canfora suggerisce, in fondo si tratti semplicemente di un’ideologia, forse una delle più antiche. Un’idea negata in ragione diretta della sua vetustà. Se però si prova a guardare oltre questo velo ideologico la democrazia appare come uno strumento per la creazione del consenso attorno a questo o quel gruppo dirigente, un’arma politica per ceti abbienti contro altri ceti abbienti, in cui il resto della società è solo incidentalmente strumento di consenso. Questo permette di inquadrare meglio anche il rapporto tra istituzioni democratiche e governo della società. Si tende infatti a credere che la democrazia sia una forma di governo, ma più precisamente dovrebbe dirsi che essa è uno strumento di governo, nel senso di un arnese di cui il governo, predeterminato, della società si serve per la propria funzione direttiva.

Per questo motivo M. Abensour, come già visto in passato[2], sostiene che l’espressione “Stato democratico” sia, in realtà, una contraddizione in termini.

Mentre Luciano Canfora denomina questo stato di cose “sistema misto”, ad indicare un meccanismo «in cui il “popolo” si esprime ma chi conta sono i ceti possidenti: tradotto in linguaggio più attuale, si tratta della vittoria di una oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali»[3].

Si tratta cioè di un sistema che in altre occasioni abbiamo indicato con il termine di “monoclassismo istituzionale”[4] a voler sottolineare come, in democrazia, la detenzione e quindi la guida di tutte le istituzioni statali sia saldamente in mano ad un’unica classe sociale.

Con ciò accade che in democrazia tutti possano dire la loro fintanto che questa libera espressione non aspiri a divenire governo e che la libertà d’espressione valga dunque a tutti gli effetti solo su argomenti secondari, non strutturali. Ecco perché l’opinione pubblica è così disarticolata, fin troppo ricca di posizioni alternative, che, a ben vedere, altro non sono che false soluzioni, tanto utili a costituire abachi di proposte sempre studiatamente inessenziali. Si prenda ad esempio il problema della disaffezione della cittadinanza nei riguardi della politica. Subito il sistema politico cerca il nuovo viatico per recuperare la voglia popolare di sentirsi di nuovo protagonista nella determinazione delle scelte politiche. La democrazia del sistema misto cerca di rifarsi il look attraverso le primarie, questo strumento importato dagli Stati Uniti, per cercare di salvare ciò che resta in piedi delle istituzioni democratiche attuali. Non è un caso che in tempo di crisi dei partiti, sia proprio il partito più grande a proporre questa soluzione per tutti. È solo perché la destra elettorale italiana, dominata per due decenni dalla figura di Berlusconi, non si è ancora emancipata dal suo padrone, che non abbiamo assistito anche alle primarie del centro-destra. Persino Grillo ha dovuto, col suo movimento, fare qualcosa di simile alle primarie, per poter selezionare i candidati alle elezioni.

Ma cosa sono le primarie, se non un ulteriore rafforzamento della legittimità politica della classe dominante? Abbiamo assistito, con le primarie del centro sinistra, ad uno spettacolo imbarazzante, dall’esito scontato (nonostante l’ego renziano), ed in cui le sedicenti proposte “alternative”, erano ridotte a slogan di un minuto e mezzo su una serie di questioni secondarie. A parte il fatto che l’esito finale fotografa precisamente l’equilibrio già in essere tra correnti di partito e tra partiti, equilibrio che evidentemente si forma prima del voto (dato che ognuno porta a votare i “suoi”) e che stabilisce la vittoria come il risultato delle capacità organizzative e non della forza delle idee, ci chiediamo, quand’anche così non fosse, come ci si possa aspettare che un tale livello infimo di dibattito possa far formare un’opinione politica in grado di andare oltre l’empatia personale con questo o quel candidato.

Ecco dunque che la democrazia morente cerca, spettacolarizzandosi, di assicurarsi un’esistenza come zombie di se stessa. Il risultato è un sistema sempre più americanizzato in cui si incoraggia una partecipazione “alla facebook”, dove la scelta è ridotta a “mi piace-non mi piace” e in cui nessuna funzione di partito diversa da quella elettoralistica è più richiesta, rendendo superflua qualsiasi opinione politica sui fatti della realtà da parte dell’elettorato. Questo produce un tipo di consenso totalmente avulso dalla coscienza di un’appartenenza politica, suggellando il dominio definitivo di un’unica ideologia (mai in discussione), pur nell’apparenza di una mancanza di ideologismo nella politica attuale.

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Ma c’è un altro dato preoccupante in tutta questa storia ed è quello per cui nessuno sembra essersi accorto di questa degenerazione del concetto di democrazia. Anche le forze politiche che fino a qualche tempo fa erano critiche rispetto ai baracconi americani come le primarie, oggi smaniano dalla voglia di prendervi parte, anzi decantano le virtù di un simile spettacolo concludendone l’assoluta necessità al fine di riportare in vita la democrazia attraverso una più ampia “partecipazione popolare”. L’assenza totale di una critica anche banale alla riduzione della democrazia a spettacolo da fiction televisiva, dà la misura del livello di americanismo di cui è ormai intrisa la cultura politica europea, da troppi decenni vittima del proprio complesso di inferiorità rispetto agli Stati Uniti. E non c’è neanche da sbalordirsi per il fatto che attualmente in Italia sia proprio il centro-sinistra il più accanito tutore del sistema misto, attraverso trovate come le primarie. Ai liberisti di destra infatti non piacciono certe chincaglierie in salsa democraticista, essendo più che altro votati al governo della società e digerendo a malincuore l’esistenza del “popolo” come entità per lo meno elettorale oltre che sociale. Il loro pragmatismo politico li porta a badare a questioni più di sostanza ed aver ottenuto, già tempo fa e senza colpo ferire, il passaggio dal proporzionale al maggioritario, significa aver determinato la qualità fondamentale della democrazia in atto. Non solo Berlusconi infatti ha mandato a monte le primarie del centro destra, ma lo stesso Monti con la sua “salita alla politica” si offre ad essa in qualità di leader portando in dote il suo nome, a che servono dunque le primarie, soprattutto quando è così chiaro che non c’è nulla da fare? Monti dice inoltre che non è tempo di vecchie distinzioni fra destra e sinistra ed ha ragione nella misura in cui da tempo in campo è rimasta una sola ideologia, mentre il centro sinistra, vorrebbe “ancora” essere legittimato ideologicamente come partito legato ad un elettorato fondato nel lavoro, ché altrimenti non avrebbe ragione di esistere come partito separato dagli altri. Il più grande partito italiano è praticamente l’unica forza parlamentare a non aver ancora sciolto del tutto il proprio legame con un elettorato rappresentabile in parlamento solo a costo del suo permanente tradimento politico. Per questo motivo la borghesia italiana lascerà governare il centro-sinistra sempre e solo se non troverà niente di meglio, nonostante il pd abbia largamente dato prova della propria “affidabilità” e la partita è aperta più che mai ora che essa ha finalmente trovato, anche grazie al pd, in Monti un esponente all’altezza delle sue richieste, intorno al quale lavorare per poter costruire una formazione politica in grado di ripetere i fasti della vecchia dc. Bisogna ricordarlo: in questo sistema democratico è la sinistra ad essere in contraddizione, non il centro-destra, e qualora il pd vincesse le elezioni ci riuscirebbe solo per la contingente incapacità organizzativa altrui.

Bersani ama ripetere che il pd non essendo costruito su un nome, non è un partito personale. Ha ragione in questo e gli va dato atto, ma ciò non toglie che laddove manca il padre-padrone supplisce la burocrazia di partito e nell’uno o nell’altro caso gli elettori, e gli eventuali militanti, non hanno potere nei confronti dell’autorità della linea politica che discende dall’alto sempre bella e pronta per l’uso. Questa linea può essere commentata ma non costruita e le primarie servono solo a dare l’illusione che le cose non stiano proprio in questo modo.

Nonostante la (giustificata) ritrosia del centro-destra rispetto a quest’ulteriore inutile fardello demagogico, è probabile che le primarie, e ciò che esse rappresentano, diventino addirittura la democrazia del futuro in tutto l’occidente per controbilanciare la noia mortale del maggioritario. Oltre a ciò non è difficile immaginare fin d’ora una progressiva trasmutazione nel senso dell’istantaneità esasperata di internet della formazione consensuale intorno alle proposte di un sistema che è già perfettamente in grado di spacciare se stesso per il suo contrario, in un vortice gattopardesco dai ritmi elettronici, in cui la stessa idea di cambiamento perde qualsiasi significato concreto di presa sulla realtà.

Ma, tornando al presente delle primarie, c’è qualcosa di allucinante nel centro-sinistra italiano ed è la sua resistenza nonostante tutto, l’accanimento del suo elettorato, quello fedele, che continua a votare ad occhi bendati, solo come argine alle destre (quelle esterne al partito s’intende) e mai con in mente un’idea di un mondo diverso, anche se ci sarà sempre un pericolo da arginare. Un fenomeno politico come quello di Renzi, d’altra parte, nasce e cresce in seno al centro sinistra, non fuori e questo è un segno tangibile di cosa sia diventata la sinistra parlamentare italiana, anche grazie al sostegno che il suo elettorato non gli fa comunque mancare.

Alla stessa “antipolitica” grillina sta in fondo bene che ci sia un leader del movimento, il quale è proprietario del “marchio” 5 stelle. La politica è ormai un brand, un prodotto d’autore e questa deriva personalistica non accenna a diminuire, le primarie stesse sono un ulteriore accelerazione in questo senso, nonostante il bel dire bersaniano a riguardo dei personalismi. Da nessuna parte è possibile scorgere una reazione composta a tale deriva, sembra che sia del tutto inimmaginabile una politica senza un’autorità alla quale continuare ad elemosinare concessioni. In questo costume così omologato delle forze politiche in campo, al di là dei contenuti politici proposti, si realizza, a nostro avviso, uno dei paradossi maggiori della situazione attuale, ovvero il fatto che alla più forte diseguaglianza sociale degli ultimi decenni corrisponda la più forte uguaglianza culturale. Ciò è possibile dal momento in cui la realtà fattuale del mondo che viviamo è letteralmente scomparsa dal fuoco dell’attenzione politica, dal momento in cui l’astrazione dei mercati finanziari con la sua rappresentazione spettacolare di indici e parametri numerici, di volta in volta nuovi e indiscutibilmente fondamentali, si è sostituita alla coscienza della miseria emozionale, oltre che economica, nella quale la nostra vita si svolge. In questa allucinazione collettiva sorge il dubbio, fondato, che nessuno voglia, in fondo, che le cose funzionino diversamente da come in effetti funzionano, tanto ai vertici quanto alla base dei movimenti e delle forze politiche.

È indubbio che per fare la democrazia ci vogliono gli uomini, mentre è evidente che questi stiano scomparendo.

Veniamo così al nerbo della questione: come è accaduto che a due millenni dalla nascita della democrazia, e particolarmente negli ultimi due secoli, nonostante le rivoluzioni socialiste, non si siano fatti passi in avanti rispetto al reale protagonismo del popolo nella res publica? Perché l’uomo comune non sente il bisogno di emanciparsi dall’eterodirezione della propria esistenza e continua ad oscillare fra indifferenza ed entusiasmo per le politiche che altri determinano? In effetti sia l’uno che l’altro atteggiamento (indifferenza o entusiasmo) è strettamente funzionale allo scopo della classe dominante. La domanda principale è: perché il popolo non desidera, e non considera l’eventualità di, sostituirsi in prima persona alla politica di professione?

La risposta, molto probabilmente, tocca questioni che attengono alla cultura, o meglio a quello che la cultura di massa è diventata, in occidente, dopo più di mezzo secolo di egemonia americana sul mondo.

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È ancora Canfora che pone l’accento su una certa interpretazione dei fatti storici. Egli sostiene che con le due guerre mondiali, nel Novecento, l’Europa autodistruggendosi abbia, in definitiva, sancito l’egemonia di un paese, gli Stati Uniti d’America, che si è trovato a poter guidare l’immaginario del mondo in ragione di una serie di devastazioni belliche che non lo hanno neanche lambito lontanamente. Per Canfora l’egemonia dell’americanismo non è dunque figlia della supposta superiorità culturale del modello americano, ma, al contrario, conseguenza della folle autoesclusione europea dalla scena globale delle culture che avrebbero potuto porsi come modello di civiltà. E dato che nulla accade senza conseguenze di lungo periodo, oggi subiamo ciò che l’americanismo rappresenta in ultima istanza, ovverosia un modello sociale imperniato sul “culto della ricchezza”[5].

Cos’è però il “culto della ricchezza” di cui ci parla Canfora? È quell’espediente subliminare con il quale viene plasmato il “gusto” della civiltà. Non la propaganda esplicita, e neanche, aggiungiamo noi, la pubblicità in sé e per sé, ma proprio tutto il resto, si potrebbe dire la pedagogia della merce che sin dall’infanzia si preoccupa di trasmettere, attraverso ogni mezzo, valori (quelli sbagliati) ai singoli individui, producendo, con un sistema industriale, la soggettività di massa che in seguito desidererà essere al mondo come simulacro dei possidenti. In base a questo espediente le masse escluse non giungono naturalmente a contemplare la distruzione del mondo che li emargina, ma sognano all’infinito, e con tutta la loro forza, di poterne far parte. Esse non valutano l’ingiustizia dell’ineguaglianza e dell’esclusione, ma si adoperano instancabilmente a simulare la propria appartenenza al mondo che li sfrutta. Per questo non desiderano porlo in discussione, ma al contrario bramano una posizione, anche infima, che li faccia sentire parte del tutto, odiando visceralmente chi gli possa ricordare la realtà della propria condizione sia sul piano esistenziale, sia su quello politico. Essere dei contestatori del sistema, infatti, implica il riconoscimento della propria collocazione nel sistema, e si sa che a volte la verità è troppo più dura dell’illusione.

Ora basti pensare non solo alla pubblicità, ma a tutto l’apparato iconografico della cultura di massa capitalistica, che agisce giorno per giorno, ora per ora, sull’immaginario collettivo, plasmando non l’intelletto, ma direttamente le pulsioni desideranti (l’inconscio) di miliardi di soggetti su tutto il globo a partire dalla loro infanzia.

Corollario del culto della ricchezza è la smania di consumare e Canfora sostiene che sia stato questo a determinare il crollo delle “democrazie popolari” del cosiddetto socialismo reale, tanto per inquadrare il piano sul quale oggi si determinano i fatti storici.

Ma facendo un passo indietro, mentre l’Europa era alle prese con la ricostruzione postbellica, il paese venuto dal nulla, lavorava alla più proficua (da un punto di vista ideologico) industria capitalistica, quella dello spettacolo, basata sul potere ipnotico delle immagini in movimento, che per quanto difficile da ammettere, costituiscono un’irresistibile attrattiva per l’essere umano dalla più tenera età alla vecchiaia. Chi non subisce, ad esempio, il fascino del cinema? Tutti i grandi intellettuali, di qualsiasi estrazione politica, hanno sempre analizzato e riconosciuto con forza il potere persuasivo dell’estetica dell’immagine. Il movimento delle immagini amplifica all’inverosimile tale potere ipnotico. Non c’è bisogno di dire esplicitamente “dovete desiderare di essere come i ricchi”, basta rappresentare l’esistenza dei ricchi affinché, inconsciamente, scatti il meccanismo di emulazione nei consumatori di immagini industriali. Perché, ad esempio, i ragazzini negli anni settanta giocavano a cowboy e indiani? La pubblicità è solo il più esplicito dei casi, ma il fatto è che nella società delle merci, tutto è una proposta commerciale, dal cinema alla fiction, a ciò che non si sospetta lontanamente. Si  potrebbe fare uno studio a parte sul contenuto recondito della produzione cinematografica, televisiva, fumettistica, grafica, e via dicendo, dell’ultimo mezzo secolo, e lo stesso potrebbe farsi, ad esempio, sui giocattoli prodotti industrialmente, per capire fino a che punto l’americanismo possa essere letto come un programma di colonizzazione culturale probabilmente senza precedenti nella storia dell’umanità. E nel momento in cui l’Europa stessa è divenuta produttrice di spettacolo, per riempire i palinsesti creati dall’irruzione della TV quale elettrodomestico principale delle famiglie del primo mondo, non ha risposto, se non marginalmente, con l’opporre, sul piano culturale, ai modelli americani una diversa pedagogia dello spettacolo, ma ponendosi quale concorrente commerciale della produzione americana, con la stessa solfa del culto della ricchezza magari in salsa europea.

In questa mastodontica opera di educazione del gusto, la stessa evoluzione tecnologica rappresentata oggi da internet, anche aprendo indubbiamente altre possibilità, rimane imperniata sul potere dell’estetica e sulla comunicazione per immagini, al limite come promozione di se stessi. Facebook ne è l’emblema.

L’americanismo è dunque sul piano dei contenuti il culto della ricchezza e sul piano degli strumenti una produzione industriale di merce materiale e immateriale caratterizzata da una doppia natura, funzionale e simbolica, in cui è in definitiva la dimensione simbolica ad assurgere alla funzione più alta di produzione della soggettività di massa. Si pensi ad un’automobile. Si tratta di un macro oggetto che svolge una funzione specifica, ma che solo in ragione della propria carica simbolica giustifica la scelta di una marca rispetto ad un’altra. E la maggioranza delle persone ritiene la scelta dell’automobile un fattore essenziale per l’espressione della propria personalità. Questo modo di identificazione personale non è limitato solo alle automobili, ovviamente, oltre ad avere conseguenze pesantissime sull’ecosistema.

Ma che c’entra tutto questo con il problema della democrazia? C’entra nella misura in cui il culto della ricchezza, ovvero l’imperativo all’emulazione di stili di vita, è, a ben vedere, il culto della diseguaglianza sociale, vale a dire la necessità culturale della povertà. Senza povertà infatti non potrebbe darsi ricchezza. Ma sul piano sociale la diseguaglianza è il culto del signore, del capo, del leader, del personalismo. La diseguaglianza implica la struttura ad albero della società.

Per questo motivo l’idea di una democrazia come istituzione di eguaglianza[6], rappresenta un paradigma alternativo di produzione di soggettività che la cultura occidentale americanizzata ormai rifiuta culturalmente.

È la condizione culturale attuale che esclude la possibilità di concepire il termine democrazia come portatore di una società fondata sull’eguaglianza di tutti gli uomini. In questa condizione storica l’istituzione della democrazia può trovare solo forme caricaturali del suo significato potenziale e di conseguenza manifestarsi solamente in modalità degenerative, con enormi costi sociali e addirittura eco-sistemici.

Ora se questa è la democrazia oggi praticabile, vale a dire la dittatura della maggioranza selezionata con il voto della cittadinanza, ma come opzione limitata ad un’offerta attentamente controllata dall’alto, è decisamente e finalmente il caso di essere contrari ad essa e alle mistificazioni colossali che produce. Si capisce che il fatto essenziale non è il voto, concesso a “tutti”, ma la selezione, per altre vie, dell’offerta politica praticabile.

Per inciso andrebbe specificato che la democrazia non è monca solo perché già strutturata come sistema maggioritario, il quale magari rende più trasparenti gli autentici giochi di potere che vi stanno dietro, ma sarebbe altrettanto, se non più, mistificatoria in una forma proporzionale, dal momento che non potrebbe comunque essere più di una pura rappresentazione dei conflitti sociali.

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Tuttavia la storia della civiltà è sempre più generosa di quanto sembrerebbe e se la democrazia nasce già come forma solo rappresentativa di inclusione sociale, è anche vero che essa ha mostrato meccanismi embrionali, rimasti sempre minoritari, che se adeguatamente potenziati potrebbero probabilmente implicare grosse trasformazioni nel governo della società.

Ci sono, crediamo, due principi importanti che l’analisi critica delle forme istituzionali prodotte dalla storia della democrazia può suggerire come base di considerazioni utili attorno alle forme democratiche. Il primo è quello della territorializzazione del sistema democratico, oggi messo fortemente in discussione, il secondo quello che potrebbe essere pensato come un diverso meccanismo di regolazione dei governi.

Quando, ad esempio in Attica, con la riforma di Clistene il territorio venne diviso in 100 demi (oggi diremmo comuni o municipi) e le forme istituzionali democratiche replicate in piccolo, al fine di permettere una partecipazione maggiormente diffusa sul territorio, si compì uno sforzo di concretizzazione delle istanze teoriche circa le forme di buon governo. Questo passaggio, apre, di per sé, tutto un discorso sui limiti di una visione rigidamente accentrata delle istituzioni democratiche e sulla maggiore praticabilità di una visione federalista e territorialistica, ponendo però anche una contraddizione riassumibile nei seguenti termini: una volta creato il dualismo fra centro e periferia è necessario capire quale dei due poli finisce per essere determinante. In effetti nei casi conosciuti, e a maggior ragione oggi con la spinta sempre più forte all’iper-centralizzazione istituzionale, è sempre stato il centro del sistema, per forza di cose de-territorializzato, a dettare legge sulla sua periferia, ma, in astratto, ciò non è necessariamente lo schema ideale. Pensiamo invece che solo le istanze territoriali, possano conoscere approfonditamente le necessità delle comunità e dei territori che amministrano e che perciò il locale ha bisogno di essere elevato a rango fondamentale nell’equilibrio amministrativo e di governo. Il centro, pur necessario, dovrebbe identificarsi come sovrastruttura delle istanze territoriali. L’obiezione classica, da parte delle visioni centralistiche, in merito alla necessità di un controllo distaccato, e perciò di ordine superiore, alle pressioni locali sulle istituzioni democratiche, per quanto fondata, pone un problema che va risolto in altro modo rispetto alla tendenza al “commissariamento”.

Anche per questo motivo sembra necessario immaginare un diverso regime di regolazione del sistema, ponendo in una prospettiva critica l’indiscussa superiorità accordata assiomaticamente all’istituto della votazione. Proviamo dunque ad esaminare, anche solo per esercizio speculativo, l’istituto del sorteggio o, in altri termini, ciò che classicamente viene indicato con il nome di “demarchia”.

L’interesse critico, verso questo tipo di strumento ci sembra motivato dalla necessità di rompere la strutturazione ad albero della società, non impedendo necessariamente la formazione di gerarchie logiche di organizzazione, ma evitando che la gerarchia si personalizzi e si strutturi socialmente in modo definitivo. Con un simile espediente, quello della selezione casuale, tutti i componenti della società sono formalmente sullo stesso piano e potenzialmente chiamati a cariche amministrative e di responsabilità di ordine locale e sovra-locale. Questo implica, a sua volta, la necessità di elevare la cultura politica media dell’intera società anche attraverso l’esercizio concreto di mansioni pubbliche, evitando, tramite l’imprevedibilità del caso, il cristallizzarsi di equilibri di potere attorno alle istituzioni politiche. Da un altro punto di vista il dispositivo potrebbe concorrere a spezzare il privilegio assegnato attualmente alla specializzazione settoriale delle discipline, evitando che la politica, o il governo, possa essere espressione esclusiva di particolari formazioni culturali a discapito di altre. L’impossibilità di permanere in un ruolo specifico destruttura l’aspettativa carrieristica (e il tipo di formazione che essa richiede) la quale, attualmente, priva di senso il meccanismo della rappresentanza, separando socialmente chi è preparato politicamente dagli interessi che dovrebbe rappresentare. In questo modo la funzione politica verrebbe ricondotta a ciò che essa dovrebbe essere e cioè un onere sociale e non un privilegio parassitario. In più sarebbe relativizzato il problema della selezione (falsamente) meritocratica, trasformando la questione del merito, in un compito, sociale e non individuale, realmente necessario al funzionamento delle istituzioni pubbliche, con questo rivitalizzando ed elevando al massimo livello il ruolo pedagogico delle istituzioni formative e culturali dello Stato. Questo, in particolare, sembra il punto di maggiore forza nel ragionamento, ovvero concepire uno strumento di governo della società che ricerchi nella cultura generale di tutta la popolazione il proprio valore principale, con questo non potendo più tollerare l’abbrutimento umano che l’americanismo rappresenta per tutti coloro, la maggioranza, che sono condannati a scelte politiche, e di vita, preconfezionate.

Dal momento che tutti dovrebbero essere in grado di contribuire al bene pubblico e non solo alcune caste e classi, verrebbe conseguentemente meno anche un altro parametro fondamentale della diseguaglianza sociale, ovvero il differenziale economico, comunque ingiustificato anche attualmente, esistente fra le mansioni dirigenziali e quelle sottoposte, nei processi amministrativi e produttivi.

Insomma si tratta di analizzare quegli strumenti, sorteggio o quali che siano, in grado di dare un colpo pesante alla politica del voto di scambio e dei favori, politica che non chiede una società di soggetti liberi ma piuttosto un “mercato elettorale”. Se non è sicuramente detto che i problemi inerenti alla democrazia siano superabili con espedienti puramente “tecnici” è pur vero che la possibilità di realizzare, quanto meno, una distribuzione meno iniqua delle opportunità di espressione dell’individuo nel proprio contesto socio-politico è comunque un obiettivo notevole, obiettivo a partire dal quale si potrebbe forse anche sperare che altri tipi di culture possano emergere ed esprimere più compiutamente visioni meno omologanti del mondo.

All’istituto della votazione resterebbe la funzione più delicata di controllo sociale sul governo, a mezzo dell’istituzione della revocabilità immediata di cariche ad ogni livello in caso di scelte ritenute dannose per il pubblico interesse.

Siamo convinti che questo tipo di funzionamento generalizzato della macchina pubblica, potrebbe oltre che eliminare molte diseguaglianze, anche rendere più efficiente il governo della società, superando la contraddizione esistente fra la discussione democratica delle mozioni di volta in volta in campo e la necessità di attuare le decisioni necessarie.

Il potere legislativo stesso sarebbe affidato ad un’assemblea formata a sua volta a sorteggio con funzioni anche di controllo sull’attività di governo e sarebbero necessarie molte meno leggi di oggi. La stessa amministrazione della giustizia potrebbe essere concepita sul modello della giuria popolare formata a sorteggio e che esprime verdetti a maggioranza in base a votazione. Questo per dire che la votazione non sarebbe completamente esautorata ma ristrutturata quale funzione utile non a dare il potere ma piuttosto a toglierlo, ove necessario.

Probabilmente molti dei limiti politici attuali verrebbero superati, forse non tutti, e altri se ne creerebbero, tuttavia una società che non sperimenta nuove regole di associazione si sclerotizza in forme sempre più vuote di senso e socialmente perniciose.

Resta infine da dire, che al di là delle soluzioni “tecniche”, nessuna eguaglianza sociale è possibile senza mettere in discussione, lasciandole inalterate, le grandi concentrazioni di capitale. Non è possibile, in altri termini, immaginare un qualsiasi sistema di governo egualitario della società in cui persistano diseguaglianze economiche fra i componenti della società stessa. L’esercizio libero della propria facoltà di espressione politica infatti implica, a tutti i livelli, un diritto all’esistenza che non può in nessun modo essere subordinato a persone diverse da chi esercita tale facoltà. Detto sinteticamente: la precondizione dell’eguaglianza sociale e politica è e resta la proprietà pubblica di tutte le realtà produttive e finanziarie, piccole e grandi.

 

DICEMBRE 2012

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[1] Per essere celibe una macchina deve essere inutile, incomprensibile, infeconda e delirante; deve sembrarci un dispositivo bizzarro - e a volte lugubre - che adotta figure meccaniche per simulare effetti automatici e che consuma molto più di quel che rende. La macchina celibe è inverosimile, ma possiede una struttura fondata su una logica persuasiva e stringente, meccanismo infecondo e tuttavia logicamente funzionale.

Antonio Castronuovo, Macchine fantastiche, manuale di stramberie e astuzie elettromeccaniche, Stampa alternativa, Viterbo 2007, pag. 162.

[3] Luciano Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia. Laterza, Bari 2010, pag.331.

[5] Per inciso diciamo che questo discorso va indagato alla luce di una fondamentale chiave di comprensione della realtà attuale, rappresentata dalla categoria gramsciana di “americanismo”, anche se al di là di ciò che Gramsci indicava strettamente con il termine.

[6] «La democrazia (che è tutt’altra cosa dal sistema misto) è infatti un prodotto instabile: è il prevalere (temporaneo) dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per l’eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, “diritti”». Canfora, cit., pag.332.